...Non credete che la divina tenerezza sia sdolcinata e meschina, che indugi nelle compassioni ambigue, o fugga dal campo di battaglia. Essa è fuoco(1).
Il termine "tenerezza" evoca sensazioni piacevoli, forse rare, rimpiante oppure invano desiderate; comunque risuoni in noi, rimanda per lo più al mondo materno dell’accudimento infantile. Pochi forse immaginano che se ne possa parlare in modo, per così dire "virile" e persino farne una categoria teologica di grande spessore, capace addirittura di evocare il nucleo originario, il "fuoco", della rivelazione cristiana.
Le pagine che seguono rappresentano un invito a riscoprire l’inaspettata profondità della "tenerezza", ponendosi all’ascolto di uno dei più sorprendenti e versatili intellettuali cattolici degli ultimi quarant’anni, Maurice Bellet, teologo, filosofo, romanziere e psicanalista. La sua riflessione, che prende le mosse dalla necessità di depurare l’immagine di Dio e lo stesso cristianesimo dalle ambiguità accumulate negli ultimi secoli, ci aiuterà a riscoprire quella "parola originaria" che appunto nella tenerezza insieme si rispecchia e trova una chiave espressiva.
Secondo Bellet, la divina tenerezza è anzitutto un fuoco che sa purificare tutto ciò che dentro e fuori di noi svilisce e svuota ogni messaggio di vita e di speranza, in primo luogo la parola del Vangelo. Nel quadro del suo pensiero essa può assumere un compito storico, aiutando a superare la profonda crisi del cristianesimo occidentale il cui messaggio fatica a giungere al cuore dell’uomo contemporaneo. La distanza del cristianesimo dalla vita reale condanna la fede cristiana a un destino di marginalità culturale e insignificanza esistenziale.
L’incertezza, il disagio, la disgregazione, il senso di fallimento e di impotenza che oggi sembrano caratterizzare il vissuto di chi abita le nostre terre post-moderne, non sembrano lasciare nessuno indenne: non gli uomini e le donne che abitano oggi il nostro mondo, non i credenti che avvertono l’angosciante mancanza di un punto fermo, nemmeno la fede fa loro da scudo al senso di vuoto e precarietà e spesso apre in loro la lacerazione tra un cristianesimo che non dice più nulla alla vita, e non sostiene, non aiuta e l’intuizione che in esso sia racchiuso un prezioso tesoro da non perdere, da non buttare; nemmeno i sacerdoti sono preservati da questi vissuti, la loro crisi, scrive Bellet, è reale e talvolta profonda. La sua formazione psicanalitica, oltre che filosofica e teologica, gli consente di entrare in modo tagliente e impietoso nelle situazioni più intricate e nei meccanismi più nascosti per smascherare quanto di ingannevole e pericoloso vi si annida. I suoi testi risultano quindi particolarmente illuminanti in riferimento ai nodi più delicati della vita credente(2).
Tutti i suoi saggi propongono una via d’uscita; c’è sempre in Bellet la premurosa attenzione al lettore, perché comprenda bene e in profondità. Perché colga l’occasione di riflettere, di mettersi in gioco, di avviare una ricerca su di sé e sulla propria fede senza temere esiti distruttivi o angoscianti. Dai suoi scritti traspaiono un calore e una passione che non possono non coinvolgere e trascinare sul cammino di un’indagine personale magari dolorosa, ma senz’altro arricchente talvolta necessaria per ritrovare una fede libera da ogni menzogna e perversione che finalmente sostenga la vita e la testimonianza del credente. In questa direzione si comprende la ricerca di categorie illuminanti, capaci di offrire una piccola luce alla ricerca di un cristianesimo autentico e vitale per l’uomo d’oggi.
Il senso del fallimento
Tentiamo ora un approccio più analitico alla dinamica del pensiero di Bellet in cui si dispiega la sua interpretazione dell’umano strettamente connessa e intrecciata con i contenuti più autentici del messaggio cristiano. La forza della cura amorevole, della vicinanza reciproca, dell’accoglienza e dell’ascolto premurosi, rappresenta per Bellet ciò che veramente restituisce l’uomo alla pienezza di sé e alla verità della propria vita. Esperienza del tutto umana che trova però il suo principio in ciò che egli nomina in svariati modi: parola primordiale, inaudito, abrupt... Che ci precede, ci fa essere, ci sostiene, ci nutre... Sono alcuni dei molti nomi della divina tenerezza.
La divina tenerezza è sobria e discreta. Si trasmette da corpo a corpo, attraverso lo sguardo, la mano, la semplice presenza, l’ascolto benevolo e gioioso. S’allieta del prossimo, senza nulla esigere da esso. Scambia senza cercare profitto. Dona senza aspettare alcun riscontro. È l’umanità ingenua e semplice. Può fare a meno di tutto, persino delle parole. Permette all’uomo di sopportare sé stesso nell’attraversata talora terribile della vita(3).
Bellet si è occupato con passione e coraggio della fatica di vivere, del male inevitabile presente in ogni umana esistenza, del vuoto e del non senso, in particolare del doloroso fallimento spesso percepito da chi oggi abbia a cuore la verità cristiana. Ha affrontato la disgregazione interiore spesso patita anche da chi abbia assunto con convinzione i contenuti cristiani incontrando oscuri sensi di colpa alimentati da un certo modo di vivere la religione e la stessa relazione con Dio e smarrendo così il senso autentico dell’annuncio cristiano. La sua stessa esperienza psicanalitica lo pone in contatto col vissuto di disgregazione e angoscia che oggi colpisce il credente, anche quello serio e impegnato perché per lui la parola del Vangelo risulta pervertita in parola di perdizione e di morte: Sentivo, sentivo queste parole terribili, che venivano da persone credenti, pie, devote, e che davano del cristianesimo e dello stesso Cristo un’immagine insostenibile di crudeltà e di menzogna. E in questo riconoscevo, bisogna proprio dirlo, certi tratti di una "fede" e di un "amore" di cui avevo io stesso sentito quanto potevano essere ingannevoli: erano infatti diffidenza, disperazione, solitudine. Mi è parso preferibile ascoltare questa parola strana fino in fondo (...)(4).
La preoccupazione di ristabilire chiarezza attorno all’originario della fede lo guida nel lavoro di smascheramento dei meccanismi che alimentano questa percezione distorta di Dio che si oppone radicalmente al vero volto di Dio testimoniato da Gesù, pur mantenendone alcuni tratti qualificanti; manca in primo luogo proprio la tenerezza! Così si tratta pur sempre di un Dio che ama, e in questo assume il volto del Dio cristiano, ma questo Dio avanza un sottile ricatto, esige da noi – per amore suo – tutto ciò che potrebbe fare la nostra gioia "troppo umana", chiede il "sacrificio", la "rinuncia" fino alla perdita di sé stessi. Certo Bellet ha di fronte persone che sono state travolte da questi vissuti, lacerate e dilaniate da quest’insostenibile perversione che avvilisce ogni gusto e passione di vivere. Ma, ci avverte Bellet, una radice traviata della percezione di Dio alberga nel mondo cristiano, è penetrata a fondo nel tessuto religioso del cristianesimo occidentale, in modo sottile, inavvertito, sotterraneo e proprio per questo risulta più attiva e pericolosa, è più diffusa di quanto si pensi, assume forme e modalità disparate. La si può scoprire al fondo della fede con la sua forza snaturante, che toglie ogni vigore alla stessa verità cristiana. Non possiamo qui svolgere nel dettaglio l’iter analitico percorso da Bellet(5), ma possiamo cogliere lo stimolo a un confronto con la nostra personale, profonda, immagine di Dio.
A ben guardare forse possiamo riscontrare nella nostra stessa fede di persone adulte, impegnate, serie, una sorta di incredulità, un dubbio sull’agire benevolente di Dio, un sottile sospetto che la nostra umanità, ciò che ci è più chiaro e vitale, posto nelle mani di Dio, possa rischiare il tracollo. Se non siamo noi in prima persona abitati da tali vissuti, se la nostra fede ha conosciuto una purificazione, certo comprendiamo quanto questa percezione di un Dio ostile, concorrente, ricattatore perverso, sia all’origine dell’ateismo di tanti nostri conoscenti, amici, colleghi, che ben difendono il valore e la dignità dell’uomo a fronte di un cristianesimo che avvilirebbe alla radice tutte le dimensioni dell’umano esistere: da quella fisico-corporea a quella intellettuale, etica... La perversione dell’immagine di Dio, dice Bellet, ossessiona l’inconscio cristiano, è come una peste che si trasmette con l’aria, con l’educazione, con la cultura, persino col catechismo, basta poco! Anche perché siamo da sempre, dall’origine, predisposti a farla nostra.
Questa sottile perversione alloggia nell’inconscio, incontra il nostro desiderio umano, sempre ambiguo e diviso, si allea con quella parte di esso che si volge all’annientamento e alla distruzione e, innescando meccanismi a catena, trascina sulla via della perdizione, percepita però come il nostro sommo bene. Sono parole dure, inquietanti, la forma mentis psicanalitica di Bellet si esercita in modo efficace per smuovere anche in noi quelle false certezze, che rischiano di snaturare tutto ciò che veramente ci darebbe vita, pienezza, senso. Capita così che in nome di Dio si giustifichi tutto ciò che in realtà risulta distruttivo per la nostra vita umana. In nome di Dio, delle regole, del bene, si snaturano le relazioni, anche le più care, si perde il gusto della vicinanza, dell’intimità, della tenerezza, si mortifica tutto ciò che ci farebbe vivere. In nome della compassione, di per sé buona e auspicabile tra gli umani, si toglie vigore e forza all’umana relazione, ben altro è la divina tenerezza, per questo dobbiamo difenderla con forza, lei che è amore e forza, contro ciò che le rassomiglia tanto da trarre in inganno e che è esattamente il suo contrario: la distruzione dal sapore di zucchero (la crudeltà dolciastra soprattutto), amare la propria disgrazia, gemere (...). E l’amara complicità di colui che geme e di chi compatisce! Si nutrono l’un l’altro delle loro deiezioni, del loro gusto per la morte. Sì, separare la divina tenerezza dalla sua orribile caricatura: la falsa compassione che si nutre della sventura dell’altro, che ne succhia l’abiezione e la vergogna. Senza dubbio per consolarsi del peggio che la abita(6).
La nostra durezza di cuore è qui ripresa come incapacità a vincere in noi quei blocchi che tanto ci ostacolano sulla via della vita, quella tendenza a piagnucolare e a giustificarci, a pervertire in vita e bene ciò che in realtà è morte e nostro sommo male (e viceversa). Gesù stesso, avverte Bellet, è stato vittima di questa trappola, ha trovato la morte in nome di Dio; lui che più di ogni altro ha inteso testimoniare il desiderio di Dio come cura per l’uomo, si è scontrato con questa inconscia forza pervertitrice che spinge l’essere umano a eliminare chiunque voglia porre fine all’odio, all’avvilimento, alla svalutazione di sé portando un messaggio di amore, di pienezza, di giustificazione a esistere così come si è perché amati dall’origine.
Gesù terapeuta
Gesù Cristo infatti, nella sua vita, si pose al servizio dell’uomo per guarirlo, fu il terapeuta per eccellenza, capace di reintegrare nella verità l’uomo in tutte le sue dimensioni. Tale terapia, proprio in forza di ciò che realizza, introduce il turbamento, incontra e provoca delle resistenze, viene vista come disgregazione dell’ordine e pericolo per i poteri stabiliti, poiché sfugge al loro controllo. Gesù è duro contro l’ostilità di chi prende a pretesto la legge, la verità, Dio stesso, per contrastare la sua benevolenza. Storicamente poi l’opposizione al terapeuta si spinse fino alla sua messa a morte, momento in cui tutto il peggio dell’uomo passa su di lui e in lui. Egli subì così una passione che ben rappresenta lo specchio di ciò che gli uomini fanno della loro vita e cioè angoscia, solitudine, iniquità, derisione, mortificazione del corpo, cammino di morte, crocifissione: L’immagine del crocifisso, l’immagine intollerabile, mostra ciò che l’uomo fa dell’uomo quando il male che è in lui si raddoppia. Essa dice il contrario terribile, che infine si lascia vedere, facendo salire in superficie il fondo della malattia umana(7).
Bellet sottolinea come la singolarità dell’opera terapeutica di Gesù consiste proprio nella capacità di andare fino in fondo, assumere su di sé la prova, al fine di smascherare la radice mortifera che è all’origine di tutto ciò che l’uomo prova come scacco, dolore, sofferenza, separazione, angoscia: Così, fino alla fine, il terapeuta resta terapeuta. E la cura che egli offre è rivelare, poiché egli è senza vendetta e senz’odio, che la radice può essere tolta. Mantenere relazione con lui fino a questo punto, significa sciogliere in sé stessi il nodo profondo in cui il nostro amore della vita è pervertito a fondo dal nostro desiderio di dare la morte(8).
Questo "male radicale" abita l’uomo, vive in profondità, non ha nome nel linguaggio comune; si tratta di un istinto volto a distruggere tutto ciò e chiunque possa dare la vita e restituire alla verità di sé stessi: ...è lo snaturamento dell’istinto, dell’istinto di vita in desiderio di morte in cui la morte dell’altro diviene sostanza della vita, nella misura stessa in cui l’altro dava la vita. Il suo atto è l’omicidio suicidario, in cui la violenza assoluta e raffinata è volontà di uccidere nell’altro ciò che viene, da lui a noi, come vita(9).
Questo desiderio di mettere a morte si concentra sul terapeuta in modo particolare, poiché egli è tutto proteso a dare la vita. Ma quel male non deve affiorare, è sepolto profondamente e prende addirittura l’aspetto di bene, si presenta come difeso dalla legge, da Dio stesso; viene chiamato coi nomi di realismo, buon senso, giusto interesse: Si giustifica in virtù dei poteri, religiosi o politici. Gioco del demoniaco: Satana continua a citare Dio(10).
Possiamo riconoscere in questa lettura tante storie di vita in cui sembra all’opera una forza tenace, orientata però alla distruzione e al fallimento, una sorta di spirale che disintegra tutto, e in primo luogo proprio ciò che si annuncia come bene puro, gratuito, generoso, e appartiene quindi all’ordine della relazione e dell’amore. E ciò accade nella forma più plateale del rifiuto violento, nella forma più sottile di un’interpretazione disincantata e "realista" che perverte ogni atto d’amore in ricatto, narcisismo, interesse, o ancora nella forma di un riconoscimento della propria strutturale incapacità... Non importa tanto il come: di fatto si avvilisce e si mortifica l’altro che tanto poteva darci vita!
Il desiderio di Gesù è "altro" da quello umano, ne supera l’ambiguità radicale e riconosce che la vita d’altri è occasione di vita per me, che la morte stessa, se si consegna la vita perché l’altro viva, è ugualmente diretta verso la vita. È desiderio che vuole in profondità la vita dell’altro in tutta la sua pienezza, è servizio, cura, condivisione, accoglienza, grande pazienza, non giudizio, rifiuto di complicità nella commiserazione, parola buona, tenerezza, fermezza, perdono:
Percepire il Cristo come terapeuta, significa seguire questo principio: tutto ciò che viene da lui ha come senso la cura; egli vuole la vita. E ciò vale anche per le parole di condanna perché esse significano essenzialmente che egli rifiuta ogni complicità, che egli vuole lavorare a fondo l’illusione e andare al fondo delle resistenze(11).
Il modo vero di intendere Gesù consente quindi all’uomo di aprirsi alla vita e alla relazione, di superare e vincere la "radice mortifera": questo è il nocciolo autentico e ineliminabile della sua manifestazione e quindi della rivelazione cristiana.
Il linguaggio dell’accoglienza
L’agire di Gesù ha voluto attestare il profondo desiderio di Dio di reintegrare le sue creature nella pienezza della vita attraverso la liberazione dal male fisico, dalla colpa, dall’avvilimento sociale, dalla morte... E proprio in questi incontri, nella trama della sua vita quotidiana, entro le contraddizioni ineliminabili dell’umano esistere e contro le evidenze della disillusione, del contrasto, dell’ostilità e della malignità del vivere, sempre Gesù ha voluto parlare il linguaggio del desiderio di Dio, quello dell’accoglienza, della cura, della dedizione. Sempre si è schierato a favore dell’umano (e quindi divino) desiderio di vita, liberandolo dal pungiglione mortale, dalla "radice mortifera" e offrendoci l’appiglio supremo della nostra speranza.
Grazie a Gesù l’ambiguità è tolta. Anzitutto in Dio, e una volta per tutte il fondamento della nostra vita e quindi della nostra fede si rivela affidabile dedizione alla nostra causa, negazione assoluta di ogni assoggettamento forzato, restituzione suprema della dignità dell’umano, lealtà sconfinata, tenerezza infinita! E così anche per noi, grazie a Gesù, si apre la possibilità di superare la forza dei pensieri ambigui, delle contraddizioni sottili che si annidano nelle pieghe oscure del nostro cuore. Queste, attivate dalla "radice mortifera" ci vedono talvolta infastiditi dall’eccesso d’amore che muove in noi il sospetto, perplessi di fronte al dono gratuito che paventa in noi l’orrore del ricatto, sollevati di fronte alla sofferenza dell’altro che comunque non tocca me, resistenti a gioire pienamente del suo successo.
L’amore per l’altro ci risulta difficile, anche con tutte le nostre buone intenzioni, sempre corriamo il rischio, entro l’amore stesso, di vivere la divisione, la distanza o il possesso soffocante e omicida! Nel suo testo L’amore lacerato, Bellet illustra con efficacia tutto ciò che snatura l’amore dal suo interno, lo svuota e avvilisce trasformandolo in dolore profondo, lacerante. Eppure, dice Bellet, la "parola inaugurale", pronunciata e testimoniata da Gesù, può e deve giungere a ognuno; è la parola che a tutti dice: «sei amato dall’origine e da sempre», è la parola della divina tenerezza. È la parola che dovremmo udire di nuovo dal Vangelo, come fosse la prima volta; essa va ripetuta instancabilmente, ascoltata, ripresa e custodita nel nostro cuore: da lì è la nostra vita.
La "questione prima", ciò che precede e tutto fonda, ricorda Bellet, è questa «siamo o no amati fin dall’origine?». La scena evangelica è un unico dispiegarsi della risposta positiva, della divina tenerezza, la sola che può disinnescare in noi gli ingranaggi di morte, può preservare i nostri affetti più preziosi e cari dal rischio di snaturamento, là dove vengano elevati al posto di Dio, caricati di attese come si può e deve fare con Dio, li custodisce dalla corruzione alla quale sono esposti proprio a motivo della loro "assoluta" bontà: È come l’aria che respiriamo, l’acqua che ci vivifica, la terra che abitiamo, il calore della vita. È tra di noi e nessuno la può prendere. Noi deriviamo da essa, è la dimora originaria della parola umana, è il sale di ogni nutrimento del corpo e dell’anima(12).
La divina tenerezza si stende sugli umani, su tutti, li restituisce alla dignità e al senso, predispone per essi un senso ritrovato sollevandoli dall’insostenibile compito di giustificarsi da sé, assicura protezione, libera dall’ambiguità dell’esistere e scioglie gli ingorghi della colpa, della mortificazione, dell’avvilimento che spesso bloccano ogni accesso al gusto e alla passione per la vita. La divina tenerezza, la strana dolcezza, ci accoglie per quello che siamo, ci coccola, ci riprende con dolce fermezza, non ci ferisce mai, non colpisce il centro del cuore, là dove troviamo la vita: La divina tenerezza tutto salva, vuole salvare tutto. E non dispera mai di nessuno. Crede che vi sia sempre una strada. Senza sosta continua infaticabile a partorire, curare, nutrire, rallegrare e confortare(13).
Ma quale è il suo luogo, la sua via, il suo manifestarsi? Come possiamo avere accesso, sentirla, gustarla? Il suo luogo, dice Bellet, è il corpo, il nostro corpo umano, mortale come del resto è stato per Gesù: La divina tenerezza è carnale, riguarda il corpo. (...) Sta nelle mani, nello sguardo, sulle labbra, l’orecchio attento, il viso, il corpo intero. È nei gesti del corpo. È l’anima amante del corpo che agisce. È la bellezza amorosa del corpo umano(14).
Ecco, è divina, ma così divina da essere interamente umana, è l’amore dell’amicizia, quello spontaneo, delizioso, dedizione che non si compiace di sé, è presenza, ospitalità, parola scambiata, non giudizio. È tutto ciò che dà vita a noi stessi, anzitutto, ci permette di visitare con fiducia i nostri luoghi oscuri ed estranei, dà vita alle nostre relazioni, ai nostri cari, a tutti, quando li amiamo di quell’amore puro, quello della madre per il suo bambino, che desidera il suo bene, che è contenta e fiera del suo stesso esistere, che comunica quel «mi piaci così come sei e per quello che sei» che tanto rinvigorisce sulla via verso sé stessi e la vita. Questo amore fa vivere sempre e in ogni luogo del pianeta, è il sale della vita, è ciò che costruisce, è l’amore tra gli umani che si gode "tra noi", è l’amore giusto, quello che sloggia l’io da sé stesso, lacera il narcisismo in noi per volgerci all’altro chiedendo a lui e trovando in lui la felicità suprema.
È l’amore divino che va ascoltato percepito e accolto nel "fra noi" che ascolta, comprende, apprezza ogni cammino, non giudica. È l’amore che ci sostiene e ci incoraggia a spezzare quelle oscure resistenze che tanto agiscono in noi, talvolta a nostra insaputa, nella nostra quotidiana esperienza, nelle nostre relazioni. E ci frenano, ci chiudono in un attaccamento a noi stessi mascherato come autenticità e singolarità personale, ma che invece nasconde il terrore per ogni cambiamento, il rifiuto, talvolta rassegnato, di ciò che invece potrebbe dare nuovo respiro a noi, ai nostri cari e alle persone che magari "curiamo". Al fondo di noi stessi, nel segreto, sappiamo tutti che "basterebbe poco" per dar respiro a chi ci circonda, per sciogliere la distanza e la diffidenza, per dare qualità umana, quella che conta e sostiene tutto, alle nostre relazioni: un’attenzione particolare, una domanda interessata, un momento di calma e di ascolto vero, una parola di perdono, un gesto di premurosa accoglienza, di affetto e tenerezza, uno sguardo di complice intesa. Se questa luce non attraversa la relazione, non si instaura nemmeno l’umanità dell’uomo. Anche l’accudimento più disponibile e "servizievole" senza qualcosa di queste "qualità umane" (e, dice Bellet, sommamente divine) rischia di tramutarsi in strumento di dipendenza e mortificazione, rischia di alimentare l’autocompiacimento da una parte e il risentimento e l’incontentabilità (quindi l’avvilimento) dall’altra. Senza queste qualità umane gli stessi gesti degli amanti vanno incontro alla smentita dolorosa dell’amore.
Le qualità umane
Quanto ci costa però tenerle vive! Sembra veramente di dover smuovere in noi dei macigni di durezza, di orgoglio, di abitudini radicate, di incapacità "congenite". Eppure la divina tenerezza ci indica questa via, è essa stessa questa via, lì la incontriamo e ce ne nutriamo: e in questa fede, che attinge a quella parola primordiale e osa tenacemente attestarla, noi troviamo anche il principio e il coraggio di sciogliere le nostre mani, i nostri sguardi, le nostre braccia incontro all’altro. E la forza che ne deriva è strepitosa, veramente cadono le mura e si spostano le montagne: non solo e non tanto perché l’altro, incoraggiato e rinfrancato dalla nostra accoglienza, acquista il coraggio di sentirsi finalmente autorizzato a esistere, ma anche perché noi stessi ne ricaviamo il centuplo; in quanto a percezione di noi e del senso del nostro essere al mondo: proprio lì, in quel momento, in quella carezza (magari data per caso e di sfuggita) anche solo per qualche secondo ci si apre il cuore alla "commozione" per la nostra comune umanità, attingiamo alla fonte viva e divina della vita, al senso del nostro essere qui, su questa terra, chiamati a farci gli uni gli altri strumenti e vie della divina tenerezza.
La passione educativa in tutte le sue forme trova lì il suo nutrimento e il suo vigore, la sua origine prima. Condurre pazientemente a sé stessi, mostrare che è preferibile la vita anziché la morte, testimoniare che val la pena impegnarsi per entrare a pieno titolo nella vita anziché trascinarvisi in modo rassegnato e stanco è la questione prima, dice Bellet, ma prima ancora c’è la divina tenerezza, immenso desiderio di vivere, gioia di essere per come si è, passione per la vita, contro tutto e a dispetto di tutto, passione per ogni umano esistere, per ogni corpo, sguardo, voce. Là dove nasce la relazione umana, quando siamo presi da quella strana dolcezza, da quell’alta, umile tenerezza nei confronti dei nostri cari, amici, fratelli e sorelle, nei confronti di tutti e di tutta la creazione, qualcosa di divino è presente fra noi e le nostre relazioni assumono il sapore del divino, e si aprono a quell’orizzonte che le custodisce e le sostiene. E proprio questo "fra noi", che ci rende uomini e donne, è ciò che resta anche se tutto svanisce, nei momenti estremi, alla fine della vita, nel dolore più atroce, nella desolazione e nel fallimento, un tocco, una parola, una carezza, uno sguardo... Il nostro umano dono della vita, la forza e il fuoco della divina tenerezza.
(F. Dossi, “Il fuoco della divina tenerezza”, in «Famiglia oggi», n° 12, dicembre 2005)
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