GANDHI
Assistiamo oggi a uno sdoppiamento dell’economia: da un lato abbiamo la produzione e la distribuzione dei beni, dall’altro l’economia ha assunto il ruolo di “funzione fondamentale”, cioè quell’insieme di certezze che ci danno una stabilità e un orientamento per vivere. Il posto che in altre epoche veniva occupato dai miti tradizionali, dalle saggezze, dalle ideologie, è stato occupato – dopo la “morte di Dio” e il crollo delle ideologie – dall’economia. Questo sdoppiamento dell’economia è ben visibile nel caso del lavoro, che svolge la doppia funzione di produzione e di partecipazione al gioco sociale (chi non lavora è l’escluso, l’emarginato). Bellet non mette in discussione la “razionalità” dell’economia (questione che riserva agli specialisti), ma pone la domanda: che ruolo ha assunto l’economia “al singolare”, cioè per ciascuno di noi? (cfr. “L’economia in un vicolo cieco”, p. 8).
Il cosiddetto “libero mercato” si fonda su tre assiomi: 1. Tutto è mercificabile; 2. Tutto è quantificabile (tramite il denaro); 3. Tutto deve incessantemente espandersi (a partire dalla voglia, eccitabile fino all’inverosimile anche verso ciò che è del tutto inutile, non dai bisogni reali dell’uomo, che sono invece molto limitati). Ed in questo sta il suo delirio. Il delirio infatti si verifica quando una certa organizzazione, anche molto razionale e sistematica, è costruita su una radicale negazione della realtà. Nello specifico, il delirio dell’economia consiste nella riduzione dell’uomo alla sua voglia, riduzione che nega l’eccedenza dello stesso uomo rispetto ad essa (dando luogo a quel ripiegamento dell’uomo su se stesso e le sue cose, in quella prigionia nel finito che Kierkegaard chiamava “malattia mortale”).
C’è allora bisogno di aprire un varco liberatorio in questa cappa soffocante, un nuovo spazio, quello della gratuità, nel quale il denaro torni a essere ciò che è, un comodo mezzo di scambio, e dove la realtà torni a essere formata da cose e da persone (Invito, p. 29). E un altro spazio ancora, quello dell’astinenza: non di una mera e antiquata repressione, ma della possibilità di ridurre il consumo, eliminando il superfluo. Ripristinando, in tal modo, il valore di ciò che non è monetizzabile, dalla maternità all’educazione, alla solidarietà; al contempo, sgonfiando i compiti vani (come la produzione di ciò che è inutile e pericoloso) e dando ampio spazio al gratuito (contemplazione, lettura, pensiero, conversazione, gioco, passeggio, arte, ecc.). Limitando tutto ciò «che ipnotizza e rende soli, in primo luogo la televisione. E sterminando quel culto osceno delle voglie chiamato pubblicità» (ivi, p. 31).
In definitiva, Bellet non intende attardarsi in una critica esclusivamente distruttiva dell’economia di mercato, né condannarla tout court negando l’evidenza dei vantaggi che essa pur comporta; egli condanna piuttosto l’impoverimento di uno spazio qualitativo degenerato in quantitativo (ad esempio, la libertà – somma qualità umana, in molte religioni attributo che accomuna l’uomo alla divinità – si riduce alla possibilità di scegliere tra diversi prodotti al supermercato: cfr. “Dalla rassegnazione alla trasformazione del desiderio”, p. 23). Per il filosofo francese non si tratta di essere pro o contro un certo modello economico, ma della volontà di rimettere l’uomo e le sue esigenze al centro dell’attenzione, senza arrendersi a quel fatalismo tutto occidentale per il quale si dice che le leggi dell’economia sono fatte così e non si può cambiarle. «È falso» dice Bellet senza troppi giri di parole. «Il destino degli uomini è nelle loro mani» (Invito, 7).
(«l'Altrapagina», giugno 2009)
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