sabato 14 dicembre 2013

Invito al pensiero di Maurice Bellet/12. L’assassinio della parola

Il tipo di comunicazione necessaria al livello più profondo deve essere anche “comunione” al di là del livello delle parole, una comunione nell’esperienza autentica.

T. MERTON, Diario asiatico

Si sente ripetere a mo’ di ritornello che la prerogativa del nostro mondo è la scomparsa della questione della Verità seguita al tramonto delle ideologie e degli –ismi. Ma si tratta di un grosso fraintendimento, perché la questione della Verità non si è affatto dissolta, si è solo spostata, passando dai tradizionali ambiti delle filosofie e delle teologie a quello dell’odierno complesso scienza-tecnica-economia, che influenza non solo i meccanismi del vivere ma anche quelli del pensare e del nostro stesso modo di vedere le cose. Ciò diventa visibile appieno, secondo Bellet, nella intolleranza mostrata dal sistema nei confronti di chi ne viola le prescrizioni fondamentali: «che siate cristiani, buddisti, musulmani, che non abbiate religione, la banca, il laboratorio, l’ospedale vi accolgono con uguale tolleranza. Ma emettete un assegno scoperto, barate sulle vostre esperienze, rifiutate di far curare i vostri figli dalla medicina ufficiale e mi saprete dire» (p. 18).

Il nostro mondo, dunque, non è affatto tollerante verso chi ne mette in discussione la Verità. Perché anche oggi la questione della Verità è legata al possesso della Verità e, di conseguenza, alla distinzione tra chi ritiene di possederla (ed è perciò nel giusto) e tutti gli altri (i quali, affermando verità diverse, vengono considerati come “negatori della Verità” e in quanto tali non possono essere tollerati). Ogni appropriazione – non fa differenza se morale, scientifica o religiosa – della Verità comporta per ciò stesso una esclusione. Ostacolo che pare invalicabile anche a chi è nutrito della migliore buona fede, per il quale sospendere il giudizio o anche solo sfumare la Verità sembra una perdita irrimediabile, quando non addirittura apostasia: «se io credo, ad esempio, che non possa esserci salvezza per l’uomo se non nell’Islam, o nella fede in Cristo, o nella saggezza buddista, l’altro da quello che per me è cammino necessario di umanità, come potrò realmente accettarlo?» (p. 16). La via indicata da Bellet per superare questa impasse che sembra condannare l’umanità alla divisione perpetua quando non a un eterno conflitto, è quella della disappropriazione della Verità: bisogna entrare nella Verità rinunciando a possederla. Bisogna rinunciare alla pretesa che la nostra espressione personale (o di gruppo o di Chiesa) della verità coincida con la verità stessa e possa pertanto (anzi debba, pena l’infedeltà nei suoi confronti) essere manipolata a piacimento in un ambito logico-discorsivo.
Questa scelta audace e radicale apre le porte al dialogo, dove chiunque può parlare ed essere ascoltato. Perché il dialogo di umanità, cui Bellet si riferisce, non è lo scambio di opinioni sul piano teoretico, magari in vista di un accordo formale o della delimitazione dell’ambito del reciproco dissenso, ma il luogo in cui ognuno può esprimere se stesso così com’è, senza che nessuno venga a dirgli “come dovrebbe essere”, cosa “si deve fare”, “cosa si deve pensare”. L’uomo può essere accolto fraternamente solo da una simile disposizione che lo lasci esprimere in pienezza e libertà, senza limitazioni. O meglio, con una sola limitazione; quella che pretende di limitare questo atteggiamento: «in ogni caso, nessuno è escluso e nessuno è catturato o requisito [...] Non si esclude che l’esclusione» (p. 76).

(«l'Altrapagina», luglio-agosto 2009)

0 commenti:

Posta un commento