Non dobbiamo identificare il fatto cristiano, che si esprime nella “cristianìa”, con il cristianesimo come religione ed ancora meno con la cristianità come civiltà.
R. PANIKKAR, Saggezza stile di vita
Il cristianesimo dei nostri giorni è in continuo declino: l’iniziativa del pensiero è passata alle scienze (in parte è rimasta alla filosofia), si diffonde sempre di più una mentalità del consumo e dell’accumulazione estranea (ma forse meglio si direbbe ostile) al cristianesimo, il “ritorno del religioso” avviene spesso in forme esotiche e avversarie del cristianesimo, il tradizionale sistema dottrinario e disciplinare sembra essere inadeguato ai tempi. Quale futuro possiamo immaginare per questo cristianesimo? Bellet avanza quattro ipotesi:
1. Il cristianesimo scompare e, con esso, il Cristo della fede.
2. Il cristianesimo si dissolve (viene inglobato in un pensiero “generale” laico-religioso, che attinge a più fonti; i valori spirituali diventano diritti umani).
3. Il cristianesimo continua, restaurando le “istituzioni”.
4. Muore il cristianesimo come -ismo legato a questo mondo della modernità occidentale. C’è qualcosa che si annuncia, ma non sappiamo cosa sia.
Ipotesi circa le quali ogni previsione è un azzardo semiserio, il cui nodo non è possibile districare a tavolino. Si tratta di prendere deliberatamente posizione: così Bellet dichiara fin dall’inizio il suo propendere – tutt’altro che neutrale – per la quarta. Perché a suo avviso è quella che meglio incarna lo spirito autentico del Vangelo, che è quello di presentarsi sempre nuovamente come disordine fondamentale rispetto all’ordine necessario (ovvero preteso tale) istituito dagli uomini. Disordine inteso come novità e opportunità di evolversi, come apertura verso quell’inaudito che è l’essenza stessa del Vangelo.
Il Vangelo disfa l’ordine del mondo non come una furia distruttrice di ogni cosa, ma piuttosto come una mano che squarcia il velo liso e impolverato che ricopre la realtà e ne impedisce la vista. Ecco perché esso non è parola “oggettiva”, che sostituirebbe a quel velo l’ulteriore velo dell’ideologia, della propria rappresentazione delle cose, bensì parola che si offre all’ascolto di chi ha orecchi per intendere, che come seme aspetta di germogliare nel cuore dell’uomo. E non solo nel cuore, ma nell’esperienza di ognuno, nel frutto singolare che ciascuno è in grado di far crescere nella sua irripetibile condizione umana attuale. È un ordine senz’ordine che inizialmente può far paura: perché fuori dalla regola del gregge, è in agguato quella della giungla, come sa bene il Grande Inquisitore di Dostoevskij. Ma Bellet non teme questo pericolo, perché “inaudito”, “non ancora inteso”, è tutt’altra cosa che “vago” o “indistinto”: il Vangelo non è smarrimento, perdita di ogni punto di riferimento; esso è al contrario possibilità di ancorarsi a quella realtà che è invisibile, ma è più salda della roccia, e che l’uomo incontra nella propria vita nello sguardo del fratello, nella vicinanza dell’altro, nell’amore del prossimo. Ancora una volta, viene meno la “conoscenza delle radici” (la dottrina) per far spazio alla “constatazione dei frutti”. Disfatta ogni immagine concettuale di Dio a uso dell’uomo, non resta che la possibilità di volgere il viso verso di Lui, in attesa di una parola, anche nuova, anche incomprensibile. Signore, non sono degno di te: ma di’ soltanto una parola e io sarò salvato.
(«l’Altrapagina», gennaio 2009)
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