sabato 14 dicembre 2013

Invito al pensiero di Maurice Bellet/7. Dio, nessuno l’ha mai visto

Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi
e l'amore di lui è perfetto in noi.
1Gv 4,12


Nel suo ultimo libro, Dieu, personne ne l’a jamais vu, uscito lo scorso ottobre nelle librerie francesi (è possibile leggerne qualche capoverso in traduzione italiana sul sito internet ufficiale di Maurice Bellet, www.mauricebellet.it), Bellet riprende e approfondisce il tema portante dell’opera precedente, Le Dieu sauvage (recensito sul numero di marzo 2008), ovvero la distanza tra Dio e le rappresentazioni che l’uomo se ne fa:
se Dio è Dio, allora non è nulla di ciò che mettiamo al suo posto e sotto il suo nome. Se Dio è Dio, allora non è Dio. Esso è molto più alto – e molto più basso. Perché vi è sempre distanza o frattura tra ciò che esso è, se è, e ciò che noi ne facciamo (p. 14).
Ciò non significa che si possa fare a meno di parlarne, come se si trattasse di un malinteso ormai chiarito, o di un residuo che può ancora andare bene per le donne e i bambini (Spinoza), ma che gli uomini, gli intellettuali, i dotti possono accantonare come un giocattolo infantile. Al contrario: anche solo come idea, “Dio” si trova nel passato di ogni uomo occidentale (e non solo) e tutti – che lo vogliano o no – devono farci i conti. Così come nessun uomo adulto può mai affermare di essersi liberato dell’eredità della propria infanzia, altrettanto nessuno può dichiararsi estraneo al passato della propria cultura, della propria civiltà. Bellet delinea così fin dalle prime pagine l’incontro con Dio come cammino d’anamnesi, eminentemente personale (cioè potenzialmente diverso per ciascuno) e insieme comunitario (ciò che scongiura il rischio del solipsismo); cammino che richiede la rinuncia a qualsiasi autorità in quanto tale, rinuncia necessaria a garantire la verità del cammino stesso: «di fronte a Dio, come di fronte alla morte, tutti gli uomini sono uguali» (p. 23).
Dio è dunque inevitabile. Allo stesso tempo la parola “Dio” è polisemica e perfino equivoca. Molti credono di sapere cosa intendono quando pronunciano la parola “Dio”; ma, a un’analisi più approfondita, la definizione del termine si fa confusa, oscura, sfaccettata, o ricade nel circolo vizioso di quella teologia autoreferenziale le cui definizioni si richiamano a vicenda e i cui argomenti si supportano l’un l’altro, nella quale si viene costantemente rimandati, come diceva Troeltsch, “da Ponzio a Pilato”.
Tuttavia, sul piano della «funzione divina», cioè di ciò che Dio è per l’uomo, le cose stanno diversamente: “Dio” è ben presente e visibile nel comportamento degli uomini, nelle loro azioni, nella loro vita; non è indifferente che essi vi credano o no. Ciò basta, in prima battuta, a liberare Dio dall’insignificanza; al contempo, però, mostra quanto Dio dipenda dalla costruzione che l’uomo ne fa. Perché, in parte, Dio è sicuramente una costruzione dell’uomo: nell’idea che ne ha, nell’immagine che se ne fa, perfino della parola che lo nomina (“Dio” è infatti una parola della lingua italiana: non si può certo negarlo). Ma c’è dell’altro, di più, che non rientra (né potrebbe) in nessuna delle categorie menzionate ed è precisamente ciò che si dà nella relazione personale all’uomo che la sperimenta come ciò di cui ne va del suo stesso essere uomo:
se Dio è per l’uomo, non può essere che in una relazione che impegna tutto. Andargli incontro coinciderà con il cammino nel corso del quale l’uomo perviene a una vita umana, grazie a una potenza e a una sorgente che gliela dona e che lui conosce in questo dono (pp. 44-45).
Non c’è dunque alcuna conclusione generale, tanto meno universale; l’unica conclusione è quella che può trarne ciascuno, secondo la propria esperienza. Detto in questi termini, sembra però che questa stessa relazione sia illusoria quanto ciò cui pretende di relazionarsi: e in un certo senso si tratta di una relazione senza oggetto, relazione “a niente”. Di che si tratta, dunque? E, se pure c’è qualcosa, come si potrà conoscerlo?
Per Bellet la relazione è a ciò che, nell’uomo stesso, è apertura irrichiudibile all’altro uomo, fonte di ogni possibilità, rispetto dovuto a ogni essere; in ciò è anche coscienza del proprio limite (perché l’uomo sa di trovarsi immerso in una realtà che non è stato lui a creare) e consapevolezza della sovrabbondanza dell’essere, sempre eccedente ciò che il singolo può com-prendere. Apertura inafferrabile, rintracciabile solo nel frutto che l’uomo reca nella propria vita. In ciò risiede in ultima istanza il non negoziabile di Bellet: lo stare al di qua dell’amore per la vita, del desiderio che ogni essere sia e che sia così com’egli è; e al di là di ogni gusto della morte, della sopraffazione, dell’avvilimento, e di ogni dottrina che pretenda di imporre alle cose il modo in cui esse dovrebbero essere.
Ecco perché sono i più semplici, i poveri e i diseredati quelli che riescono ad accedervi, mentre parecchi sapienti, ingombri del loro sapere, rimangono sulla soglia (p. 75). 
Perché egli non è altrove che nell’umile reciproca presenza dell’uomo di fronte all’altro uomo. Dio, nessuno l’ha mai visto.

(«l’Altrapagina», febbraio 2009)

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