mercoledì 25 dicembre 2013

M. Bellet, Il Dio selvaggio. Recensione di Paolo Calabrò

A un anno di distanza da L’assassinio della parola, il pensiero di Maurice Bellet torna in Italia con Il Dio selvaggio. Per una fede critica (ed. servitium, 2010; ed. orig. Le Dieu sauvage. Pour une foi critique, Bayard, Paris 2007). Bellet – intellettuale francese autore di libri dalla straordinaria lucidità e dalla grande capacità di penetrazione nei tanti risvolti del malessere dell’uomo contemporaneo, a cavallo tra filosofia, teologia e psicanalisi – non teme gli ossimori, nemmeno quando si tratta di applicarli alla divinità: così, dopo aver appreso dalle sue opere precedenti che Dio può essere “folle” e “perverso”, scopriamo che Dio può essere anche “selvaggio”.

Cosa vuol dire? Essenzialmente, vuol dire che Dio – se è Dio per davvero, e non se lo è secondo la nostra personale o collettiva idea di come vorremmo che fosse – non può venir chiuso in gabbia, in nessuna gabbia, né quella delle nostre categorie intellettuali (per quanto raffinate), né quella delle nostre convenzioni (per quanto diffuse e condivise), né quella dei nostri riti (per quanto antichi e tradizionalmente accreditati). Dio è selvaggio: viene “come un ladro nella notte” (1Te 5,2), come, dove e quando non ci aspettiamo e non possiamo prevedere né calcolare. Spesso la sua logica ci risulta incomprensibile; in più, il suo linguaggio non è quello affettato e lezioso delle buone maniere e delle frasi di circostanza, bensì quello ruvido e grezzo della sofferenza, unito a quello rovente e travolgente dell’amore.
Di fronte alla tragedia dei miliardi di persone che vivono con meno di due dollari al giorno, prive di acqua potabile, in condizioni di povertà estrema e vittime di malattie curabili, bisogna essere selvaggi, e gridare che questo nostro modo di vivere “globale” è insostenibile e radicalmente iniquo. Bisogna correre il rischio di venir definiti selvaggi, nel denunciare non che un altro mondo sia possibile, bensì che questo mondo è impossibile. Scandalo per i farisei guardiani (ma meglio si direbbe servi) dell’ordine costituito, ma trionfo della “fede critica”, il cui interlocutore non è il codice morale o l’apparato dogmatico, bensì il fratello, il vicino, il prossimo affamato – come tutti gli uomini sono – di cura e d’amore.
Il linguaggio di Bellet potrebbe sembrare irrispettoso, politicamente scorretto e forse perfino blasfemo; ma, a ben vedere, non si tratta d’altro che di fedeltà al Vangelo. Di fronte alle esigenze della verità anche la buona educazione mostra i suoi limiti, quando l’enormità del male impone che la voce si levi (e si alzi). A volte non si può non essere selvaggi: “il Regno dei Cieli è dei violenti” (Mt 11,12).

("il Recensore.com", 6 marzo 2010)

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