mercoledì 25 dicembre 2013

M. Bellet, Je ne suis pas venu apporter la paix. Recensione di Paolo Calabrò

Più di un saggio sulla violenza. Je ne suis pas venu apporter la paix. Essai sur la violence absolue, l’ultimo libro del filosofo e teologo francese Maurice Bellet (ed. Albin Michel, 2009), è un saggio sulla “violenza assoluta”, quella collocata al di là della più crudele e ferina bestialità. Violenza incarnata in maniera tragicamente eloquente nel volto sanguinante del Cristo innocente: una crocifissione cui il Dio Salvatore si espone proprio perché ci ama. Il tipo di cristianesimo che ne segue, purtroppo, non è improntato alla più grande gratuità, ma alla richiesta crudele di una dedizione senza limiti; quello stesso Dio che si è sacrificato per noi dando la sua vita, chiede a noi il più alto sacrificio: noi, vivi per grazia divina, siamo in un debito infinito verso Dio che è morto per noi, già colpevoli del solo esistere anche quando diamo tutti noi stessi per Lui. Il volto cristiano dell'amore originario - che dona e vuole la vita e la gioia di tutti gli esseri - diventa così la maschera della perversione, che si compiace dell'avvilimento e della morte.

Con questo passaggio tanto stringato e quasi ingenuo il pensiero cristiano viene avvelenato alla radice: quella che vi cresce è la pianta della violenza assoluta, trasparente perfino a chi la esercita (può trattarsi dell’inquisitore, che tortura in nome di Dio e con le lacrime agli occhi, del tutore dell’ordine che agisce per la preservazione dello status quo, del buon pater familias che aderisce sinceramente avvinto d’amor patrio alla fede nazionalsocialista). Trasparente spesso anche a chi la subisce (colui ad esempio cui sembra di star meritando i “castighi” di Dio a causa della sua intrinseca peccaminosità).
È il meccanismo della perversione che Bellet ha diffusamente e magistralmente trattato nel suo capolavoro Le Dieu pervers. Con 2 precisazioni. Che non è una perversione riservata alle grandi imprese malefiche (i totalitarismi, l’inquisizione):
non è prerogativa delle cose grandiose... essa fornisce giustificazione e propulsione anche alla violenza ordinaria, quotidiana, quella contro le donne, i bambini, gli stranieri, coloro che sono sottomessi agli ordini... essa può infiltrarsi ovunque ci sia un potere da esercitare.
In secondo luogo, essa non è tipica dell’essere umano in quanto tale (come spesso si cerca di argomentare nel tentativo di ridurla) e nemmeno dell’essere umano in quanto animale (nessun animale ne sarebbe capace, e non da un punto di vista tecnico):
la violenza che si scatena lì, se proprio la si vuol qualificare, sarebbe meglio definirla demoniaca. Qualunque sia la propria opinione circa l’esistenza e la natura dei demoni, il termine demoniaco designa una devianza fondamentale dell’umano nell’uomo, cui nessuna bestia saprebbe dar luogo.
Bellet utilizza, come sempre, un linguaggio intriso di riferimenti alla religione, in particolare al cristianesimo. Ciò però non tragga in inganno: il suo non è un discorso teologico riservato a una cerchia più o meno ampia di credenti, bensì un discorso filosofico volto a mettere in luce un problema che è proprio di tutti gli uomini. Il rischio del disfacimento di ciò che di umano c’è nell’uomo, che ne determini lo scivolamento non già nel bestiale, come si diceva, ma nel disumano:
la violenza assoluta nasce quando manca ciò che nell’uomo lo rende umano. È in gioco la stessa umanità dell’uomo. Non è un problema fra tanti; è un problema che coinvolge tutto.
Del resto, secondo l’autore, l’umanità dell’uomo – e non la religione con le sue esigenze – è lo stesso luogo di Gesù e del Vangelo. Qui, nel punto d’incrocio fra la Via cristiana e le domande più urgenti della filosofia, nasce il pensiero di Maurice Bellet. Di cui oggi, più che mai, abbiamo bisogno.

(«l'Altrapagina», aprile 2010)

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