mercoledì 25 dicembre 2013

M. Bellet, Si Je dis Credo. Recensione di Paolo Calabrò

Il credo: un testo antichissimo che ancora oggi i cristiani recitano durante la messa domenicale. Anche se, con ogni probabilità, sarebbero ben pochi quelli in grado di spiegare cosa intendano quando dicono “luce da luce” o “per mezzo di lui tutte le cose sono state create”. Ma queste sono cose della fede, non dell’erudizione, si dice; non bisogna mica essere dotti per poter essere cristiani.

È vero. Tuttavia, fin da quando è nato il cristianesimo, la fede non ha mai smesso di provare a comprendere se stessa, come ci ricorda Maurice Bellet nel suo ultimo Si Je dis credo (ed. Bayard, 2012, purtroppo al momento disponibile solo in lingua francese), citando Anselmo di Canterbury. Credere e capire non sono mai state due cose separate, tanto meno antitetiche, esse si alimentano sempre reciprocamente in un “circolo vitale” (per dirla con Panikkar) fuori dal quale l’uomo rimane diviso, spezzato fra ciò che bisogna credere senza poterlo capire (fino al punto da sembrare insensato, arbitrario o irrilevante) e ciò che si può capire ma non è sufficiente (o almeno non è tutto ciò che c’è).
Bellet questa volta entra nel cuore della teologia cristiana (cattolica in particolare) per mostrare che non solo non si può rinunciare a comprendere ciò in cui si crede, ma anche che tale comprensione è necessaria affinché la fede si incarni nella vita di ciascuno e produca frutto (e lo fa con l’ulteriore merito di non cadere nella trappola di una comprensione intesa in senso scientista, o della conoscenza che pretende l’esaustività dando vita a un paradossale regresso all’infinito).
Con il suo consueto stile affascinante e sensibile all’infinitamente sottile, Bellet non invita a una disputa dottrinaria, ma ad un’analisi corale; tesa non a cavar fuori una nuova formula dalla validità universale, ma una riflessione nutriente “per qualcuno, lì dove egli si trova in questo momento”. Perché ogni posto è diverso, così come ogni uomo; ecco perché il Credo comincia con la parola “Io”, ponendo così in secondo piano ogni elaborazione dogmatica, proprio mentre ci ricorda che Dio ci chiama per nome, uno ad uno.

(«l'Altrapagina», gennaio 2013)

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