mercoledì 25 dicembre 2013

M. Bellet, Le Dieu sauvage. Recensione di Paolo Calabrò

Libro denso quest'ultimo di Maurice Bellet, che ricapitola in una sequenza rigorosa ed incessante i principali temi della sua filosofia: l'ordine, la traversata, il futuro del cristianesimo, la crisi e l'umanità dell'uomo, già affrontati in molti testi precedenti, anche in italiano (La Via, L'amore lacerato, Il corpo alla prova, L'estasi della vita). Non potendo ripercorrerne, nell'ambito di una recensione, l'intero percorso, mi limiterò al solo senso del titolo e del sottotitolo del testo: Il Dio selvaggio. Per una fede critica.
Il “Dio selvaggio” è il Dio che si fa incontro all'uomo disperato, che non ha più risorse, impossibilitato a vivere, al quale tutte le immagini, le preghiere, i riti non offrono più alcun sollievo ed alcuna prospettiva, dicendogli: “Tu puoi essere salvo”. È un Dio che annuncia la lieta novella del Vangelo ad ogni uomo: “Cristo è risorto: nessun uomo è condannato”.

Egli tuttavia non lo fa come e quando l'uomo (o la religione) lo aspetta: «Se Dio è Dio, ha certo il diritto (mi si passi l'espressione) di essere dove vuole e quando vuole, completamente al di là dei nostri discorsi su Dio, delle nostre devozioni, dei nostri riti, delle nostre conoscenze. Dio selvaggio, in qualche modo, che lo si chiami diversamente o che non lo si chiami affatto» (p. 179). È un Dio che si annuncia al di fuori degli schemi nei quali il cristianesimo viene presentato di solito: il dottrinario (l'insieme di ciò che bisogna credere) ed il disciplinare (l'insieme di ciò che bisogna praticare). Schemi sovente abusati, ove non addirittura pervertiti (tema a cui il libro accenna, ma che Bellet ha sviluppato esaurientemente in Le Dieu pervers, purtroppo non ancora apparso in italiano). Egli si annuncia all'uomo in un modo nuovo, prossimo, divinamente tenero: la Sua parola non solo parla della salvezza, ma è una mano tesa in grado di donarla.
Per credere in questo Dio occorre una fede anch'essa nuova. C'è bisogno di una “fede critica” (e non solo di una critica della fede, ciò che la teologia e le scienze umane già fanno e che bisogna superare), che renda l'uomo capace di ascoltare questa parola ed orientarlo verso la sua Fonte. È una fede critica perché contiene in sé il germe ed il superamento di ogni critica: essa infatti è in grado di condurre l'uomo fuori dall'abisso della disperazione e ridargli la vita. («Che cosa è più facile, dire: Ti sono rimessi i tuoi peccati, o dire: Alzati e cammina?» ­– Lc 5,23). Nessuna critica intellettuale, nessuna formula precostituita ­– né vecchia né nuova ­– può fare presa su di essa: perché questa fede, che si alimenta all'esperienza della vita dell'uomo, si radica in quell'“a monte di tutto” senza di cui non vi è più umano-nell'uomo.
Lungi dal fare un discorso per teologi di nicchia o d'avanguardia, Bellet spiega che la fede critica è l'unica speranza che resta all'uomo di uscire dalla crisi attuale: quella di un'epoca che ­– mentre sembra rilucere di ricchezza e di progresso tecnologico ­– mostra ad ogni passo il suo “lato oscuro” (dai campi di concentramento alle odierne guerre per il possesso delle risorse naturali). Il sintomo evidente del malessere di questo tempo è la sua schizofrenia (pp. 30 ss.): in esso coabitano ad esempio l'illuministico idillio per la razionalità scientifica e, al contempo, una religiosità intransigente e reazionaria in crescita (Bellet allude allo sconcertante fenomeno dei cosiddetti “teocon” americani, fenomeno che trova riscontro, a vari livelli d'intensità, in tutto l'Occidente; il quale fa mostra di non rilevare la contraddizione fra la globalizzazione di uomini e cose ed i continui conati di xenofobia, tra l'incessante spinta verso il “libero scambio” e la chiusura delle frontiere agli immigrati ­– o addirittura la loro espulsione).
È questo un tempo in cui c'è più che mai bisogno di riscoprire Dio. E quando ogni immagine di Dio è logora o pervertita, non resta che cercarlo nel volto del fratello. L'annuncio del Dio «non distrugge la legge; ma la giudica a partire dalla legge di tutte le leggi, che è che l'uomo viva» (p. 75).

(«l’Altrapagina», Città di Castello (PG), marzo 2008)

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