martedì 17 dicembre 2013

Il sabato per l'uomo. Filosofia morale in Maurice Bellet e Raimon Panikkar

Introduzione
Esiste un tipo di cristiano che ha paura del suo Dio: l’amore non ha timore, dice Giovanni, ma lui sì, timore di peccare e di “meritare i castighi di Dio” (come è detto ancora oggi nell’atto di dolore che si recita alla fine della confessione). È così ossessionato dalla paura di “peccare nella carne”, che non riesce a smettere di pensare al sesso. La sua vita è un’unica grande frattura tra ciò che desidera (e già il solo desiderare, anche senza attuare, è peccaminoso, come afferma Mt 5,28) e ciò che Dio, attraverso la morale, gli permette (ovvero, come diceva quel vecchio predicatore, citato da Bellet: «In materia di purezza sono tre le cose permesse: prima, niente; seconda, niente; terza, niente»[1]). Tutto è separazione in lui: il buono e il cattivo, la verità e l’errore, la libertà e l’autorità; egli vede il mondo come in un fumetto a china, dove non c’è altro che il bianco della pagina e il nero dell’inchiostro e dove i contorni sono netti, e assenti le sfumature.
Anche quando vorrebbe sforzarsi di non giudicare il prossimo, non può farne a meno: per non rischiare di peccare (a causa di un errore di giudizio sulla bontà di un certo atto), è costretto a valutare la bontà o meno di ogni cosa. Per questo, e anche perché tutto ciò lo confina in un egotismo centripeto che lo avvita sempre più su se stesso, egli si separa pian piano da tutti e da tutto, si rinchiude, si isola. La sua religione diventa il muro che lo protegge dalle insidie del mondo, ma al contempo gli impedisce di uscire. È fatale che, alla fine, la vita “al di qua” si separi da quella “aldilà”, e che l’amore per la seconda comporti l’odio (in senso biblico, ma spesso anche letterale) per la seconda. Questo tipo di cristiano spende tutte le sue energie a tentare di guadagnarsi il paradiso; nel frattempo, la sua vita è un inferno.
Esiste però anche un altro tipo di cristiano, convinto che sia possibile vivere una vita ispirata al Vangelo che non riduca l’uomo a una “macchina per l’esecuzione di compiti morali”[2]; che se Gesù ha detto “Non vi chiamo più servi, ma amici” (Gv 15,15) e “Il sabato è per l’uomo, non l’uomo per il sabato” (Mc 2,27), ciò deve avere un ruolo e un peso centrali, non marginali; che sia possibile vivere liberi dalla scissione, liberi dall’eterna e spossante lotta interiore tra il bene e il male; che l’affermazione di Gesù “Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11,30) sia una constatazione quotidiana e non, come è luogo comune tra cattolici anche istruiti e ferventi, qualcosa che l’esperienza quotidiana smentisce, perché “è difficile mettere in pratica i princìpi cristiani”.
Panikkar e Bellet, entrambi preti cattolici e filosofi, rappresentano questo secondo tipo di cristiano. Entrambi ritengono che:
• a monte di tutto c’è l’unità, non la scissione (perché tutto ciò che è, è parte di un solo corpo; e perché ripartizioni come corpo/anima/spirito, pur utili sul piano teorico, sono inammissibili su quello ontologico);
• il cristianesimo è “luce del mondo”, e non la realtà stessa in forma di dottrina; esso è “sale della terra” e non qualcosa che, come dice Panikkar, vuole trasformare tutto in sale;
• la morale non ha a che fare con il “credere” cose giuste (livello teorico o dottrinario) né con il “fare” cose giuste (livello poietico o disciplinare), bensì con l’“essere” giusti (livello pratico o ontologico o effettivo).
Il livello pratico è quello dell’essere quotidiano dell’uomo. Parlare della morale è in questo senso parlare della vita tutta intera dell’uomo, di ciò che crede, che spera, che esperisce. L’obiettivo di questo scritto è mostrare in che modo Panikkar e Bellet collochino la morale al livello ontologico, tramite l’analisi delle rispettive filosofie morali ed il raffronto tra esse; duplice tentativo (di presentare l’aspetto morale delle due filosofie, da un lato; di esporre sinotticamente il pensiero di questi due autori, dall’altro), a quanto ne so, ancora incompiuto.
Nel seguito, con il termine “morale tradizionale” o, più semplicemente, “morale” senza ulteriori determinazioni, mi riferisco alla norma così come codificata in ambito cristiano, il cui esemplare per antonomasia sono i dieci comandamenti, ovvero regole del tipo: il divorzio è vietato; il celibato dei preti è obbligatorio; bisogna confessarsi almeno una volta all’anno e comunicarsi almeno a Pasqua; è vietato avere rapporti sessuali prematrimoniali (e dunque, di conseguenza, qualunque rapporto omosessuale); è vietato utilizzare metodi anticoncezionali e così via. Come si vedrà, Panikkar e Bellet concordano nel rifiutare non questo o quel contenuto della morale, bensì questo tipo di morale in quanto tale, a partire da una critica puntuale dei suoi difetti, limiti e rischi, per giungere alla proposta di una “morale” di tipo diverso (per la quale, a questo punto, la stessa parola “morale” risulta inadeguata: Panikkar parlerà infatti di “nuova innocenza”, Bellet di “effettività”).
Le traduzioni dal francese e dall’inglese dei brani citati dai testi non tradotti in italiano sono mie (ove non diversamente specificato).

Nota bibliografica
Per la parte riguardante Bellet:
Ho seguito da vicino il testo Réalité sexuelle et morale chrétienne, Desclée De Brouwer, Paris 1971 (non tradotto in italiano; i numeri di pagina, ove non diversamente specificato, sono riferiti a questa edizione francese), che indaga l’ambito della morale sessuale cristiana – discorso che Bellet proseguirà nelle opere successive, ad esempio in Le Dieu pervers – ma le cui conclusioni sono estensibili alla morale cristiana in generale e anzi, in quanto analizza il meccanismo di funzionamento dei princìpi e non semplicemente il loro contenuto, ad ogni morale “normativa”, anche laica (ciò che Bellet stesso annota nel testo). Anche a 38 anni di distanza questo libro è tutt’altro che datato, e molte delle sue principali considerazioni – ad esempio sull’ipocrisia, la perversione, l’effettività, la distanza tra i princìpi e la realtà – si ritrovano sparse nei testi più recenti.
Testi principali di riferimento: M. BELLET, Le Dieu pervers, Desclée De Brouwer, Paris 1979 (in particolare il capitolo 1); ID., Fede e psicanalisi, Cittadella, Assisi 1975; AA.VV., Il cristianesimo sta morendo?, l’Altrapagina, Città di Castello (PG) 2001; M. BELLET, La Via, servitium, Gorle (BG) 2001; ID., L’estasi della vita, Dehoniane, Bologna 1996; ID., Le Dieu sauvage. Pour une foi critique, Bayard, Paris 2007.
La bibliografia secondaria in italiano su Bellet è praticamente inesistente (informazioni aggiornate al riguardo sono rinvenibili presso il sito internet ufficiale di Maurice Bellet in italiano, all’indirizzo www.mauricebellet.it); si segnalano solo il testo di F. DOSSI, Passaggio fra le acque. Interpretazioni psicanalitiche e religiose dell’angoscia, Glossa, Milano 2005 (che dedica più di duecento pagine all’analisi del pensiero di Bellet) e l’articolo della stessa, “Il fuoco della divina tenerezza”, in «Famiglia oggi», n° 12, dicembre 2005, oltre ai due contributi di R. TAIOLI, “Il senso della gratuità in Maurice Bellet”, in «Testimonianze», n° 447/448, 2006 e “Il canto del corpo”, in «Cenobio», Anno XLIX – settembre 2000, pp. 245-249. A ciò va aggiunto il mio contributo dal titolo “Invito al pensiero di Maurice Bellet”, ciclo di 13 articoli di presentazione del pensiero del filosofo francese, in collaborazione con il mensile «l’Altrapagina» di Città di Castello-PG (giugno 2008-settembre 2009).
Per la parte riguardante Panikkar:
La parte di questo scritto relativa a Panikkar è stata per così dire “preparata” dal mio precedente articolo “Saggezza come stile di vita nel pensiero di Raimon Panikkar”, apparso in «Sapienza», vol. 60, fasc. IV, pp. 457-473, Napoli 2007, le cui conclusioni qui riprendo e porto avanti e al quale rinvio anche per la bibliografia completa dei volumi di Panikkar in italiano (aggiornata al 2007). Va notato che Panikkar non ha mai affrontato direttamente il tema della morale (con l’unica eccezione di Mito, fede ed ermeneutica, pp. 51-76, e anche lì nella specifica prospettiva del mito della morale), né vi è in programma un volume dell’Opera Omnia dedicato all’argomento.
Testi principali di riferimento: R. PANIKKAR, Opera Omnia. Vol. I, tomo 1: Mistica pienezza di vita, Jaca Book, Milano 2008; ID., Opera Omnia. Vol. IX, tomo 1: Mito, simbolo, culto, Jaca Book, Milano 2008; ID., La nuova innocenza, voll. 3, CENS, Milano 1993, 1994, 1996; ID., Saggezza stile di vita, Cultura della pace, San Domenico di Fiesole (FI) 1993; ID., L’esperienza di Dio, Queriniana, Brescia 1998; ID., Mito, fede ed ermeneutica, Jaca Book, Milano 2000; ID., L’esperienza filosofica dell’India, Cittadella, Assisi (PG) 2000.
La bibliografia secondaria in italiano su Panikkar è piuttosto scarsa. Si segnalano: A. ROSSI, Pluralismo e armonia, l’Altrapagina, Città di Castello (PG), ottima introduzione al pensiero di Panikkar; S. CALZA, La contemplazione. Via privilegiata al dialogo cristiano-induista, San Paolo, Milano 2001; G. COGNETTI, La pace è un’utopia? La prospettiva di Raimon Panikkar, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2006, dedicato specificamente al tema della pace, nonché P. BARONE, Spensierarsi. Raimon Panikkar e la macchina per cinguettare, Diabasis, Reggio Emilia 2007, centrato invece sulla tematica del “superamento del mentale”. Una interessante raccolta di materiale su Panikkar si trova su internet all’indirizzo http://www.gianfrancobertagni.it/autori/raimonpanikkar.htm.
Infine, un testo di cui consiglio la lettura è quello di G. VACCHELLI, Dagli abissi oscuri alla mirabile visione. Letture bibliche al crocevia: simbolo poesia e vita, Marietti, Genova-Milano 2008, ispirato proprio al pensiero di Panikkar (che ne ha steso la prefazione) e Bellet, il cui filo conduttore è la distinzione tra il piano etico e il piano ontologico ed il cui principio-guida è: colligite fragmenta.

Bellet: crisi (e critica) dei princìpi
Il punto di partenza di Bellet, comune a gran parte delle sue opere, è la descrizione critica dello stato di fatto. Egli comincia quindi la sua trattazione della morale proprio a partire dalla situazione attuale[3], osservando che la libertà dei costumi è molto aumentata, che anche i princìpi più saldi – come ad esempio il divieto dell’incesto – vengono messi in discussione e che, in più, ciò che prima restava nascosto, reclama a gran voce la propria legittimità, come ad esempio nel caso dell’omosessualità. “Crisi” della morale sessuale tradizionale che non risparmia i cristiani: basti pensare all’odierna impopolarità di quelli che sono stati capisaldi della morale, come la castità o la purezza.
Per alcuni si tratta di una decadenza tipica della società occidentale di stampo capitalistico ed edonistico, da arginare salvaguardando con fermezza i princìpi (perché finché ci sono i princìpi – si ritiene – l’errore può essere riconosciuto, ma senza i princìpi va tutto alla deriva nell’anarchia dei desideri individuali). Strategia secondo Bellet anch’essa impopolare, oltre che inefficace.
Per altri si tratta di un fenomeno complesso, che porta con sé tratti di decadenza e di corruzione, ma anche la consapevolezza di una nuova coscienza della sessualità umana, che rimette in discussione una società falsamente morale basata su princìpi ipocriti.
Ora, secondo il senso comune, i princìpi, in senso morale, si presentano come regole di condotta che si impongono alla vita, in particolare sessuale, e che devono essere accettate e praticate. Esempi per i cristiani: indissolubilità del matrimonio, continenza prematrimoniale, divieto dell’omosessualità, obbligo del celibato sacerdotale, divieto dei contraccettivi, ecc.
Bellet si propone un confronto tra tali princìpi (norma codificata) e la fede che li fonda, quella del Vangelo (che è uno spirito, non una lettera). Ad esempio, si chiede, è possibile credere nel valore della fedeltà coniugale e al contempo ritenere opportuna una revisione della casistica di “nullità matrimoniale” prevista dal diritto canonico, o dell’atteggiamento della Chiesa nei confronti dei divorziati? Ma, oltre all’esame del contenuto dei princìpi, indaga il modo in cui le regole funzionano, domandandosi qual è il rapporto dei princìpi con la realtà, della morale con i costumi, e quanto fruttuosamente i princìpi vengano o meno applicati.
Bellet si interroga dunque a proposito della morale sessuale nel suo insieme, nel suo rapporto con l’esperienza, ben consapevole dell’ampiezza – ma anche della necessità – del compito; nella convinzione che, se i princìpi devono avere una certa portata reale, le questioni di diritto non possono essere separate da quelle di fatto.

«Cominciamo dalla critica: il rapporto dei princìpi alla realtà sarebbe cattivo; dimodoché, anche se i princìpi “in sé” sono eccellenti, quegli stessi princìpi, “per noi”, là dove siamo, hanno un significato sospetto e nocivo. I princìpi, così come li abbiamo ricevuti, nella “educazione cristiana”, nell’insegnamento della Chiesa, ecc., sono formulati per se stessi, senza che il loro rapporto alla vita reale sia affrontato sul serio. Essi si mantengono, maestosamente, nel loro ordine proprio di princìpi. Il loro luogo è questo mondo ideale, dove “ciò che accade” non ha letteralmente diritto di parola»[4].
I princìpi non hanno bisogno del confronto con la realtà: essi fondano la loro autorità su una certa “essenza” dell’uomo o del cristiano. Anche nella loro applicazione alla realtà essi non si deformano: la realtà, piuttosto, deve loro conformarsi. «Non c’è “ritorno” dell’esperienza verso i princìpi; non c’è “feedback”»[5].
Ecco perché, rileva Bellet, i princìpi funzionano sovente come divieti, anche quando proclamano i “valori” più positivi, l’amore, la gioia di donare, l’unione a Dio, ecc. Doppio divieto, con il quale essi proteggono l’agire ma anche se stessi: divieto di fare questo o quest’altro; ma anche divieto di discutere i princìpi (se non nei limiti fissati dall’Autorità deputata a preservarli, che è anche quella che li ha emessi; di fatto, non se ne può parlare).
Di qui, altri due brevi passi: primo, la semplice considerazione di “ciò che accade davvero” è già pericolosa, perché non è possibile prevedere dove potrà condurre (e se si spingesse fino alla rimessa in questione del fondamento dei princìpi?). Secondo (conseguenza logica), per lo stesso rischio, l’uomo non deve pervenire alla conoscenza del suo stesso desiderio. Dunque: rifiuto di vedere le cose come sono, esclusione di tutti coloro la cui situazione personale “non quadra” con i princìpi, tollerati peggio di certi libertini dichiarati (come ad esempio un divorziato risposato, che ha finalmente realizzato quell’unione che il suo primo matrimonio aveva fallito; quelli come lui, nonostante una certa benevolenza pastorale, non vengono realmente ascoltati, bensì rinviati – in ogni caso – allo schema previsto per loro).
Rifiuto anche dell’aspetto culturale e storico della sessualità umana: i princìpi vengono visti come intemporali (che si tratti della “natura”, del Vangelo, della tradizione della Chiesa, ecc.). La prospettiva storica è soppressa, anche se si tratta di una finzione palese: perché i princìpi, qualunque essi siano, sono sempre formulati all’interno di un determinato contesto culturale. (Tuttavia, annota Bellet, la storia non per questo interrompe il suo corso; la conseguenza è che i princìpi si portano dietro un consistente ritardo rispetto alle situazioni reali a cui pretendono di essere applicati.
Atteggiamento che genera paradossi. «Un esempio: per difendere il matrimonio, si considera indissolubile ogni matrimonio consumato. Ma consumato come? Per i moralisti cattolici, fino a un’epoca molto recente, ciò non poteva avere che un senso: materiale. Ma se la “consumazione” del matrimonio riguarda la relazione coniugale tutta intera, la relazione di un uomo e di una donna, e non soltanto il congiungimento esclusivamente fisico di due organi? Avviene allora che certi difensori impavidi del matrimonio cristiano difendano di fatto una concezione materialistica dell’amore! (forse legata, nel loro modo di pensare, alla antica “sacralizzazione” della cosa sessuale, già superata da sant’Agostino, che rassicurava le vergini cristiane violentate dai persecutori)»[6]. I princìpi diventano così una rappresentazione di ciò che deve accadere, sostituita alla conoscenza di ciò che accade realmente. Di qui al fatto che questa rappresentazione serva a nascondere la realtà, il passo è breve: «Ciò che i cristiani immaginano di essere diviene ciò che permette loro di non vedere ciò che sono davvero. E, per mantenere l’insieme, “i princìpi” funzionano come una sorta di potere anonimo, al quale l’autorità stessa è sottomessa, e che ha la sua propria legge autonoma di autorafforzamento, un po’ come il potere burocratico»[7].
Il mondo cristiano diventa allora, riguardo al sesso, ipocrita, e di una ipocrisia incosciente (la presa di coscienza darebbe infatti luogo allo scandalo e, con esso, al crollo dell’intero sistema)[8]. Si giunge a domandarsi come sia possibile che i princìpi, tutt’altro che arbitrari, facenti capo alla fede cristiana, al Vangelo, alla tradizione, giungano a nascondere qualcosa. Cosa nascondono esattamente? Perché lo fanno? Come funziona questo riferimento dei princìpi ai loro fondamenti?
Ma Bellet fa osservare che «la relazione dei princìpi al loro fondamento evangelico non è veramente essenziale alla loro comprensione. Certo, la Scrittura è riferimento obbligato – ma mai veramente verificato, ripreso, ritrovato in Spirito [...] I princìpi si reggono “da se stessi”; o almeno, è così che si danno»[9]. Di conseguenza, si perde di vista la relatività dei princìpi (che solo il legame alla loro radice può mostrare) ed essi finiscono per presentare se stessi come degli assoluti. Ciò impedisce, o almeno ritarda, qualunque evoluzione, da un lato; la loro autonomia rispetto a tutto il resto li rende utilizzabili, in linea di principio, ai fini migliori quanto a quelli peggiori. Ma bisogna procedere per gradi.

Esiste certamente un rapporto tra i princìpi e la realtà. Nel corso della storia della Chiesa, spiega Bellet, il problema di questo rapporto è stato risolto in due modi diversi, tuttora operanti.
Prima soluzione: i princìpi vengono presi assolutamente sul serio. Volendo applicarli al meglio, si desidera che la vita sia in tutto e per tutto loro conforme. Ma ciò è impossibile: non a causa di ciò che i princìpi domandano (ad esempio la continenza dei celibi o la fedeltà coniugale), ma a causa dello statuto stesso dei princìpi. Essi funzionano infatti come soppressione del soggetto concreto, cominciano (certo implicitamente) esigendo che egli sia “al di fuori” della sua condizione sessuata, così come essa è. In queste condizioni, si è condannati a vivere una specie di finzione, a comportarsi come se la sessualità fosse sotto controllo, sublimata, ecc.
Potrebbe trattarsi di un’assenza del soggetto a se stesso. Capita che la pratica rigorosa dei princìpi si leghi a una repressione così forte che non la si percepisce più; si è interiorizzato così bene il divieto che non si può più né discernerlo né ribellarglisi. Il rischio è che questa moralità estrema diventi il regno della nevrosi.
Ciò compare in maniera lampante nel caso della repressione dell’immaginario. Si pensi a Mt 5,27-28: «Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha gia commesso adulterio con lei nel suo cuore». Parole suscettibili di due interpretazioni:
• Esigenza di verità: non è sufficiente rispettare esteriormente la legge, ciò che conta è la vita che l’uomo vive realmente;
• (quella che si incontra qui): la legge viene applicata anche al mondo dei fantasmi; ciò che porta direttamente all’ossessione. «È inevitabile che delle immagini “circolino” nell’uomo, alcune delle quali rinviano alle forme più arcaiche e meno “accettabili” della libido. Pretendere di espellerle, significa fissarvisi. (Senza dubbio, la morale più tradizionale sa distinguere tra immaginario volontario e involontario. Ma anche lì, di fatto, si rinforza una preoccupazione introspettiva di “sapere se vi si è acconsentito”, che entra nell’ossessione»[10].
Bellet aggiunge che d’altronde questa moralità così rigorosa lo è spesso meno nei fatti che nell’immagine che ci se ne fa. Colui che “si vede” casto e puro, si concede magari debolezze e compensazioni che reputa veniali o di facile riparazione. Ma capita che queste piccole macchie sulla purezza dello specchio siano, per altri, nella relazione reale, molto più gravi di quelle “mancanze” di cui si ha orrore. Così ad esempio di quei preti che giammai abbraccerebbero una donna, ma che intrattengono poi “amicizie spirituali” talmente particolari che delle giovani vi sprecano la loro vita.
La sessualità negata o respinta può dar luogo ad una forma particolarmente temibile di falsa purezza che, dietro l’apparenza dello spirito evangelico, cela l’ossessione: «Non bisogna parlare di certe cose, ma bisogna dirne tutto; non pensarvi, ma non dimenticarle mai[11], sotto l’onnipresente sguardo implacabile di un Dio che, per un solo consenso volontario a un’immagine sensuale, ricambia con la dannazione eterna»[12].
Seconda soluzione: i princìpi vengono riconosciuti come princìpi, là dove sono, nell’ideale; quanto alla realtà, essa è quello che è. Ciò che è obbligatorio è venerare i princìpi: chi li attacca è un profanatore. Ma applicarli è impossibile, ad eccezione dei santi (non a caso li si canonizza, mettendoli bene a distanza dai cristiani “ordinari”). Meccanismo che, secondo Bellet, ha funzionato bene e a lungo nella storia della cristianità ed è tutt’ora operante.
«In breve, è di fatto la tolleranza; a condizione, certamente, che non vi sia scandalo, perché lo scandalo è disprezzo dei princìpi»[13]. Tuttavia questa tolleranza deve rimanere inconfessata, e tanto meno posta in linea di principio. Quindi, qui «i princìpi sono normativi ma inoperanti; scissione accettata di fatto tra la morale e i costumi. Il cristiano ha princìpi diversi dai pagani, ma vive “come tutti gli altri”»[14]. Il grande pericolo di questo atteggiamento è ovviamente l’ipocrisia.

In entrambe le alternative, conclude Bellet, il rapporto tra i princìpi e la realtà è lo stesso: l’assenza. In un caso si sostituisce a ciò che l’uomo vive il mondo repressivo e immaginario di una “purezza” costruita in anticipo; nell’altro, si accetta l’uomo così com’è e si rinviano i princìpi al Cielo. In entrambi i casi la fede e la carità non cambiano affatto l’uomo, quanto alla sua vita sessuale. Non c’è nessuna vera metanoia.
Tuttavia, Bellet illustra altri due modi “tradizionali” per ricollegare i princìpi alla realtà.
Primo modo: il casuismo.
Si passa dai princìpi generali a regole d’applicazione minuziose e circostanziate. Così i princìpi si fanno concreti, la realtà non sfugge più. Ma anche questo modo continua a presentare il rischio di sprofondare nell’ossessione, da un lato; dall’altro, è solo questione di trovare il sistema per aggirare la norma. Entrambi questi aspetti riconducono a problemi esaminati in precedenza.
Secondo modo: la compensazione.
Può trattarsi di compensazione occulta (inconsapevole) e compensazione “religiosa” alla realtà di una vita sessuale che non coincide con la regola; Bellet si sofferma sulla seconda. Dal punto di vista individuale, essa coincide con la penitenza (anche nella forma del sacramento): ci si riconosce peccatori e ci si pente, ma nella realtà non cambia niente, si continua a peccare e ad accusarsi. Capita che se ne esca, ma anche no; in tal caso la mancanza può sembrare avere una certa compatibilità con la penitenza: o nella forma schizofrenica del riconoscere a Dio la propria sottomissione di principio e alla carne ciò che essa reclama[15], o nella fermezza dei propositi ma nella debolezza della carne[16]. Se il confessore biasima e accusa, “è normale, egli fa la sua parte”, si dice. Del resto, è sempre possibile cambiare confessore. In conclusione, anche una morale animata dalle migliori intenzioni, ma che si limita ad esse, resta priva di efficacia.
Dal punto di vista collettivo, la compensazione consiste nel delegare ai “religiosi di professione” l’onore e l’onere di vivere come angeli. Capita, di conseguenza, che si sia nei loro confronti di una severità feroce: essi devono corrispondere nella maniera più assoluta all’immagine di santità di cui la società ha bisogno per reggersi.
In ultima analisi, nessuno di questi due modi risulta in grado di porre rimedio all’assenza dei princìpi dalla realtà.

I diversi aspetti richiamati possono anche presentarsi legati tra loro, in epoche successive o anche nello stesso momento. «In un certo senso, così tutto viene salvato: i princìpi e la realtà. Ma, d’altro canto, tutto è perduto: perché la realizzazione dei princìpi comporta il loro fallimento, e la “moralizzazione” delle pulsioni è inesistente o aberrante»[17].
Ma se per i cristiani il Cristo rappresenta la comparsa di un uomo nuovo; e se la morale sessuale funziona come descritto, essa è allora una enorme sconfessione della sua stessa fede: l’uomo nuovo è soltanto immaginario.
Nasce il sospetto che ci sia qualcosa di “oscuro” dietro ai princìpi. In questo basamento, situato al fondo dei princìpi, potrebbe esserci secondo Bellet la libido stessa, impegnata nei processi inconsci che sfuggono al soggetto morale ma si installano nella sua coscienza. «Nel qual caso, la verità concreta dei princìpi non sarebbe nei princìpi stessi, e nelle riflessioni e giustificazioni morali che vi si legano, ma si rivelerebbe piuttosto tramite l’analisi di tale basamento. La “morale sessuale cristiana” rientrerebbe nell’ambito della psicanalisi»[18]. Se le cose stanno così, i princìpi appaiono tutt’altro che chiari, e quindi inadatti a fare da bastione morale: «Diffidiamo di questo linguaggio che sa tutto e ha previsto tutto, la cui casuistica non è mai presa alla sprovvista, che rinvia sempre gli uomini alla soluzione già trovata, già scritta, dimodoché la vita non gli reca mai alcuna sorpresa! Esso si tiene in quel luogo “superiore” che potrebbe ben essere immaginario; questo in-alto rinvia, senza saperlo, all’in-basso»[19].

Conseguenza di questo stato di cose è che il cristianesimo vi diventa religione del peccato e la morale cristiana morale della colpa. La vita sessuale del cristiano è come lo sforzo di Sisifo: vincere la tentazione invincibile. Anche quando egli è puro o crede di esserlo, il cristiano è legato in maniera avvilente alla legge o all’immagine narcisistica della sua virtù senza macchia. «Ma il cristianesimo non è, non dovrebbe essere, la fine del regno del peccato, la liberazione dall’opprimente colpa?»[20]. Lo stesso Dio appare come duro, crudele, inquisitore. «Appare, ho detto; ma la cosa più grave è che, per quelli che ne sono vittime, è impossibile dirlo, percepirlo»[21]. Il Dio Amore mostra la faccia del Dio Sadico, così come si presenta nell’esperienza della vita delle sue vittime (cristiani devoti, che giammai cederebbero con leggerezza a una simile blasfemia). Alla replica che questa è la fine che fanno solo alcuni, magari con una situazione psicologica di fondo sfasciata in precedenza, Bellet risponde: «Senza dubbio. Ma ciò che è grave è che il funzionamento dei princìpi rende possibile una tale aberrazione. Questo Dio letteralmente perverso non conduce l’uomo a niente, se non alla morte. E ci sono ancora cristiani terrorizzati di fronte a Dio, a causa della loro debolezza carnale, che questo terrore manda alla disperazione, alla persecuzione esasperata di se stessi, addirittura al suicidio. Signore! Quel Padre là è quello di Cristo?»[22].

Bellet: un rimedio peggiore del male
Obiezioni:
• la critica portata manca di oggettività. Non è forse vero che tantissimi cristiani hanno trovato nella fedeltà ai princìpi la loro gioia e la loro verità? Non senza sofferenza, certo. Ma immaginare un cristianesimo nemico dell’uomo è eccessivo;
• Il fastidio che proviamo non manifesta forse la nostra incapacità di obbedire ai princìpi piuttosto che l’impotenza dei princìpi stessi? La nostra pretesa analisi oggettiva non è forse il vestito con il quale copriamo le rivendicazioni della carne?
• Non siamo forse vittime, nel nostro giudizio, dell’attuale clima di “demoralizzazione” dominante? Mettere in discussione i princìpi più saldi significa buttare la bussola a mare.
Questa critica della critica poggia, secondo Bellet, su un malinteso. Non si è detto infatti che i princìpi siano cattivi o inutili; si è solo messo in evidenza che essi non si applicano, o si applicano male. Ciò significa rendere loro omaggio; criticarli in questo modo vuol dire prenderli sul serio.
Per quanto riguarda invece i fatti, converrebbe in generale attenersi ai risultati delle scienze positive, storia, sociologia, ecc. Ma è proprio di esse che la difesa dei princìpi maggiormente diffida: anche quando accorda loro una completa autonomia di giudizio, è sempre a patto che i loro risultati non abbiano alcuna ricaduta sui princìpi. Ancora una volta, dunque, non c’è nessun feedback.
In questo modo, una volta impedito alle scienze umane di mostrare i fatti scomodi, è facile selezionare quelli adatti a confermare la forza dei princìpi. Quindi, ad esempio, un prete “casto” è “casto” e basta; che l’analisi del suo comportamento riveli poi un’ossessione ansiosa spostata, “non ha niente a che vedere”.

Tuttavia, nota Bellet, questa critica della critica non è priva di ricadute: ciò di cui ci si può rendere conto se si passa dalla critica alle sue conseguenze ultime.
Perché la prima cosa che viene in mente potrebbe essere: se i princìpi danno luogo a tutti questi problemi, ebbene, si sopprimano i princìpi. Del resto, non si può essere casti per dovere. Il cristianesimo non è una morale, ed il moralismo è uno dei suoi peggiori nemici. La morale è qui nient’altro che una sovrastruttura di un ordine stabilito, che la Chiesa gestisce e a cui è sottomessa. Di fronte a questa morale ipocrita, le cui strutture tuttavia resistono, la “rivoluzione sessuale” è necessaria.
Ma questo linguaggio è equivoco, a cominciare dal fatto che il linguaggio della rivoluzione è ancora relativo a ciò contro cui si ribella. In più, «si tratta di tutt’altro che di criticare il rapporto princìpi-realtà e di sopprimere l’istanza e la distanza che rappresentano, forse maldestramente, i princìpi. Istanza: in questo contesto, organizzazione che esercita un’azione positiva in seno alla vita psicologica. Distanza: scarto fra ciò che dovrebbe essere o verso cui si tende, e ciò che avviene di fatto. Perché può darsi che questa istanza e questa distanza abbiano una funzione che non si può sopprimere. A misconoscerlo, la contestazione lascia alla morale che essa rifiuta proprio ciò che bisognerebbe riprendere: ovvero, il privilegio di esercitare la funzione che stiamo evocando»[23].
La posta in gioco è tripla (e i suoi 3 aspetti – ordine sociale, repressione dell’istinto e superamento del divieto – sono legati).
Ordine sociale: non è affatto vero la rivoluzione implichi la soppressione dell’ordine in quanto tale; le rivoluzioni al potere sono preoccupate dell’ordine quanto le società che hanno rovesciato. Del resto l’ordine sociale, quando il suo senso non viene deviato, è anche riconoscimento e protezione dei diritti individuali.
Repressione dell’istinto: si vuole “essere liberi”. Ma, all’origine, questa libertà senza vincoli rinvia all’istinto, alla soddisfazione immediata dei propri desideri, qualunque siano, e all’eliminazione di tutto ciò che vi si oppone (anche a costo di uccidere). Non c’è civiltà se non c’è all’inizio una certa repressione. Ad esempio «“il diritto al divorzio”, senza altre specificazioni, è anche, come tutti i pedagoghi sanno, il diritto di “distruggere”, psicologicamente, i bambini»[24]. Certamente per Bellet il divieto non è l’ultima parola: fermarsi al divieto vuol dire condannare l’uomo. Ma nemmeno il semplice sbarazzarsi tout court della legge può essere considerato “la soluzione”. Bellet sottolinea che prendere a pretesto la psicanalisi per sostenere uno sfogo immediato e generalizzato significa falsarne completamente il senso. Resta dunque fermo che la semplice abolizione della legge disumanizza l’uomo.
Superamento del divieto: richiamarsi al senso autentico del Vangelo va bene, ma bisogna vedere come è possibile accedervi, pena il restare incatenati all’ennesima ideologia, uguale a quelle che si pretende di sostituire.
La critica dei princìpi, così come delineata, non è affatto critica dei princìpi in quanto tali, bensì critica dei princìpi finti in nome dei princìpi reali. «Così, quando si dice: permettiamo il divorzio, perché è assurdo mantenere legati l’uno all’altro un uomo e una donna che non si amano, si protesta contro la regola in nome di un “principio” superiore: il matrimonio dev’essere unione d’amore»[25]. Una contestazione dei princìpi in quanto tali non ha nulla da opporre all’ondata pura e semplice dell’istinto. Da cui la reazione del moralista: “Ve l’avevo detto io che quando si toccano i princìpi...”
Ma non è sufficiente sostituire una morale “larga di maniche” ad una rigorista. Certo, già riconoscere il permesso come tale è un primo passo. Ma è veramente utile, prosegue Bellet, permettere alla donna di godere dell’atto sessuale, quando tutta la sua educazione, sotto le spoglie del pudore, della riservatezza, della sottomissione, la hanno di fatto preparata alla frigidità? Diminuire qui e lì la pretesa dell’obbligo morale non serve a niente finché resta fermo il principio primo: “Sempre di meno!”.
D’altronde, l’abolizione dei princìpi è un’illusione. Ci sono sempre dei princìpi, detti o non detti; essi restano a testimonianza di ciò che un individuo o un gruppo non tollera (nell’ordine della soddisfazione ovvero della repressione). Questo fenomeno può assumere forme paradossali, che Bellet esemplifica:
• si tira fuori, a partire dalle acquisizioni della psicologia, tutta una casistica di ciò che è normale e di ciò che è anormale, che si sostituisce poi alla vecchia opposizione tra bene e male e funziona infatti allo stesso modo; anche qui vi si trova pretesto per misconoscere la realtà;
• si rifiuta la rigidità precedente in nome dello sviluppo dell’individuo, ma poi ci si fa di questo sviluppo un’immagine rigida[26]. Anche qui la realtà deve conformarsi all’idea. Queste due nuove forme “laiche” dei princìpi sono più temibili di quelle “religiose” antiche, perché pretendono di inscriversi nella storia stessa del soggetto, sottraendogli così quell’ultimo margine di ribellione che gli restava;
• altre forme paradossali dell’ostinazione alla permanenza dei princìpi, anche tra i gruppi più “immorali”: ad esempio, tra le prostitute è considerata una mancanza grave godere con un cliente (ognuno ha i suoi princìpi).
Così come può esistere una “legge della licenza”, dove il godimento e la licenza diventano obbligatori e irrinunciabili. Legge dove non è affatto scontato che vi sia maggiore tolleranza[27].

Conseguenze della soppressione dei princìpi:
• distruzione di ciò che i princìpi rappresentano: la capacità dell’uomo di assumere le sue pulsioni, di integrare il piacere all’amore e di accettarsi così com’è senza per ciò stesso rassegnarsi a ciò che è;
• estenuazione del desiderio: perché il desiderio umano non è possibile che attraverso una rinuncia al piacere immediato, in quanto esso concerne l’altro e il desiderio dell’altro[28].
Buttar via i princìpi non è dunque un semplice “atto rivoluzionario”, ma un’operazione sospetta e pericolosa.

La soluzione “senza princìpi”, quindi, non è praticabile. Né è allettante il sistema dei princìpi tradizionale, con la sua ipocrisia e la sua distanza, la quale ultima non cessa né per magia né per la bontà delle intenzioni: «La distanza esiste. È proprio lì la forza del punto di vista della “tolleranza” prima evocato. È quello il suo merito! I princìpi dicono ciò che è bene; ciascuno fa poi quello che può. Il solo problema (non da poco) di questa concezione è che essa si rassegna a questa situazione»[29].
Bellet torna così al problema iniziale. Che non è: princìpi o non princìpi, costrizione o licenza. Il problema è: qual è il ruolo dei princìpi, quale il loro funzionamento?

Bellet: un’altra concezione
Bellet introduce la sua proposta di “morale” con un richiamo diretto al Vangelo. Per lui il problema non è sapere se il sabato sia cosa buona o cattiva; ma sapere se il sabato è per l’uomo o l’uomo per il sabato. Si sa che, per Cristo, il sabato è per l’uomo: affermazione scandalosa, che gli procurò una impietosa ostilità.
Questo rovesciamento operato dal Cristo è l’ispirazione di Bellet. «Si parte dai princìpi posti “in sé”, stabiliti nel loro mondo ideale ed astratto, per sottomettervi l’uomo reale. Ebbene, partiamo invece dall’uomo reale, dalla vita umana così com’è, riconosciuta onestamente ed oggettivamente, nei limiti del possibile, per cercarvi e discernervi quale può essere la verità, e come modificare ciò che non va. Il luogo, il luogo primo dove tutto ciò che concerne la “morale sessuale” deve iniziare, è così la realtà dell’uomo, e non l’universo dei princìpi. Ma, si dice, che cosa cambia? Parecchie cose»[30].
L’aspetto personale: ciò che va considerato all’inizio è l’esistenza e l’esperienza di ciascuno: bisogna iniziare dalla “constatazione leale”[31]. Lì non deve intervenire nessun divieto: esso impedirebbe di vedere le cose così come sono. «Negare in nome dei princìpi corrisponde a condannare gli stessi princìpi all’inconsapevolezza o all’ipocrisia»[32]. La realtà qui è il fatto stesso della sessualità, condizione sulla quale l’uomo e la donna non possono sorvolare. In questo ambito, ciascuno ha la sua “cifra singolare”, legata alla sua parte più intima (che a sua volta fa capo all’infanzia, ecc.). Non è possibile dunque applicare leggi o schemi preconfezionati: «Se c’è un qualche modo di conoscere la verità, è tramite la parola stessa del soggetto, che decifra la sua storia personale, il suo comportamento, la sua difficoltà nel vivere»[33].
Ma la constatazione, e l’auspicabile conseguente accettazione di se stessi, non è tutto. Né la “semplice” constatazione è mai “neutra”: una volta “reso a se stesso”, il soggetto deve farsi carico responsabilmente di ciò che è ed andare avanti secondo il proprio orientamento. Il procedimento è dunque agli antipodi sia del blocco sia dell’evasione.
«Si racconta che Claudel abbia consigliato a un omosessuale di sposarsi. Ma ciò significa rischiare di rendere infelice una donna, e di non aiutare in nulla il suo strano marito. Se veramente sono i ragazzi ad attirarlo, e non le donne, c’è là una situazione che non serve a niente negare. Senza dubbio, se lui non la approva, dovrà cercare di uscirne. Ma realmente! Ovvero dovrà accedere, nel suo stesso desiderio, alla relazione eterosessuale. Altrimenti, egli resta un omosessuale: e che sia sposato, o magari continente, non fa che ricoprire una realtà i cui effetti si faranno necessariamente sentire[34]. Può darsi che in certi casi sia impossibile cambiare; situazioni molto difficili, ma che bisogna prendere come sono»[35].
Conseguenza: nessuno può pretendere di giudicare gli altri. Se possiamo aiutare gli altri, bene; altrimenti lasciamoli in pace, dice Bellet ai limiti dello sfogo personale. «Chi sono io per reputarmi superiore ad essi?»[36].
L’aspetto sociale: la sessualità è anche un fatto sociale, oltre che personale, legato alla vita culturale e politica. A doppio filo: come presenza dell’economia e della politica nella vita e nella morale sessuale; e come presenza (spesso oscura) della sessualità in tutte le attività e le istituzioni dell’uomo. Bellet esamina questi aspetti nel dettaglio.
La vita sessuale appartiene alla cultura. La “vita sessuale sociale” non è la morale, ma la morale e i costumi, le idee e i fatti, l’ideale riconosciuto da una società e la sua pratica. Di più, la morale e i suoi princìpi fanno essi stessi parte dei fatti; lontani dal “planare” al di sopra della realtà, essi ne conoscono le vicissitudini. A volte cambia il contenuto anche di ciò che è costante, come ad esempio il pudore: l’abito di una ragazza pudica di oggi certamente avrebbe scandalizzato sua nonna. È importante prendere coscienza della propria situazione culturale, se non si vuol correre il rischio di assolutizzare ciò che è relativo; in questo, non si può prescindere dalla conoscenza offerta dalle scienze umane.
Anche tra il sesso e il denaro vi è un rapporto. Tutte le cose economiche (denaro, produzione, distribuzione) sono rapporti umani (ciò che per Bellet è l’intuizione decisiva di Marx). Ed in tutti i rapporti umani è implicata la sessualità. Ecco perché “ordinare” la vita sessuale senza tener conto dell’economia rischia di essere un’impostura[37].
«Il cammino reale della moralità sessuale passa per la trasformazione delle condizioni economiche»[38]. Diversamente, non si fa che imporre agli altri una morale che essi “non si possono permettere”.

Bellet rimarca che l’analisi fin qui condotta non ha lo scopo di ridicolizzare i princìpi mostrandone la relatività o l’impotenza, ma solo di segnare il luogo in cui una parola possa essere detta, un tipo d’esistenza proposta, che abbia realmente la possibilità di orientare ciò che concerne la sessualità nella vita umana. È il luogo stesso della morale, non qualche nota a margine di una morale precostituita, né un “adattamento pastorale” a casi particolari o patologici. Per Bellet, è necessario un orientamento della realtà.
La guarigione: il primo aspetto di questo orientamento è per Bellet la guarigione. Secondo il filosofo, troppo spesso la “morale sessuale” presuppone la semplice opposizione tra “cedere” e “resistere”, immaginando che “amare carnalmente” sia enormemente facile. «Ma amare, amare carnalmente, è molto più difficile di quanto sembrano immaginare a volte i moralisti. Là giocano tutte le angosce e le inibizioni, vi si esprimono tutte le debolezze dell’essere umano. Anche la brutale “soddisfazione psichica” non è così semplice come si crede; tralasciando i casi di impotenza e frigidità, resta il fatto che per l’essere umano il piacere sessuale non è mai un piacere come un altro. Spesso esso è fallimento, e vissuto come tale; per molti uomini e donne, e in tanti modi diversi, la sessualità è sofferenza»[39].
Sarebbe cinico e meschino, commenta Bellet, gioire di questa umana debolezza in nome della virtù. L’uomo va invece guarito, anima e corpo. A volte questo è lavoro per la psicologia; ma il lavoro per aiutare il prossimo sofferente è sempre lavoro per la carità cristiana. O essa vale per tutto tranne che per la sessualità? domanda provocatoriamente Bellet, che aggiunge: «Non dimentichiamo che la guarigione è il primo dei segni evangelici»[40].
Aiutare il fratello sofferente, soprattutto evitando di farne un “caso”, un “diverso”, è dunque compito, per così dire, del cristiano. Ciò non impedisce che ci si possa tutelare contro, ad esempio, l’educatore sadico e perverso. Tuttavia, anche in quel caso, la repressione è per Bellet il chiaro segno dell’impossibilità di operare la guarigione. (Invece di fermarsi a dire che la prostituta è una peccatrice e una malata, ci si potrebbe chiedere – pur senza fare di lei un’eroina romantica: perché c’è che si prostituisce? Perché ci sono dei clienti? Perché degli sfruttatori?).
In questo senso, la guarigione è affare sia del singolo, da trattare opportunamente (ad esempio con la psicoterapia o la psicanalisi), sia della società, da trattare con la politica (nel senso più ampio del termine).
La fine della servitù: per fugare ogni ambiguità, Bellet precisa che – secondo l’orientamento indicato – la guarigione non è il semplice adattamento a un modello sociale accettato né la mera estinzione di una sofferenza (ad esempio, una nevrosi); essa è invece indirizzata alla liberazione dell’uomo da quella che il linguaggio tradizionale denomina “servitù della carne”.
Questa servitù, ostacolo (che non ha solo un aspetto sessuale, al quale questo studio si limita) alla vera vita dell’uomo, può avere due forme opposte:
• anarchia dell’istinto: impotenza dell’uomo di fronte alla spinta cieca del suo desiderio;
• oppressione della legge: divieto puro e semplice, diretto a un’esclusione sempre più completa della sessualità del soggetto, e con essa della sua vitalità. Questa legge rinchiude l’uomo nell’universo senza uscita della colpa; universo di solitudine, fallimento, sterilità; universo chiuso, radicalmente incomprensibile (simile a quello di Franz Kafka, scrive Bellet). «E le razionalizzazioni che vi si formano, tutte le “spiegazioni” sul “peccato della carne”, non servono che a mascherare meglio la sua opacità fondamentale. L’uomo vi si perseguita senza ragione, perché è male, perché Dio lo condanna e ci condannerà a bruciare eternamente se soltanto noi ci lasceremo andare a pensare al piacere»[41].
Bisogna allora sopprimere l’istinto o la legge? Certo che no, anche perché sarebbe impossibile. Tutto ciò che si può fare è riconoscerli in maniera tale che la servitù cessi.
Fare la verità: la servitù non può rivelarsi se non tramite la conoscenza; si tratta per Bellet di operare infine il passaggio alla verità (ciò che implica il diritto di cercarla). Niente più domìni riservati: tutto può essere indagato. Ed ogni uomo ha fondamentalmente il diritto di andare a vedere con i propri occhi. Si tratta sempre di una scelta attuale tra la menzogna e la verità: nessuno può riposarsi sugli allori o ritenere di aver concluso il cammino. In particolare, fidarsi ciecamente di una “morale stabilita” è una trappola. «Si può, ad esempio, salvare così l’indissolubilità del legame coniugale, ma perdendosi ciò senza cui esso non è che prigionia: l’amore degli sposi. E non sarà certo sufficiente, allora, proclamare che esso deve essere. Un prete può “osservare” il celibato e la continenza, senza che da ciò nasca altro che noia e tristezza, o gusto del potere, o impotenza a comunicare. In breve, ciò che conta è il significato reale di ciò che si vive, molto di più che tale o talaltra azione, tale o talaltra condotta. La verità concerne l’interiorità dell’uomo, e non soltanto l’osservanza o l’inosservanza esteriore, materiale, foss’anche estesa al pensiero. Ecco il senso delle parole già citate: “Ma io vi dico: chi desidera la donna di un altro ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore”. Ciò che il Vangelo vuole, è la verità delle relazioni tra gli uomini»[42].
L’amore: l’alfa e l’omega della morale evangelica è l’amore. Ma cos’è, infine, quest’amore? «Cominciamo dall’inizio. Non c’è amore se non c’è qualcun altro. La presenza dell’altro, in quanto altro, ecco in fin dei conti la vera legge»[43].
Motivo per cui conviene, secondo Bellet, cominciare dalla giustizia: in ambito sessuale, come in tutti gli altri, il rispetto dell’altro e del suo diritto è l’abc della morale, così come, simmetricamente, lo sfruttamento dell’altro, a qualunque titolo e in qualunque modo, è l’inammissibile.
L’amore è però di più di questo rispetto. Da un lato lo si conosce dentro di sé, nella propria esperienza; dall’altro, si può amare solo avendo ricevuto l’amore. Il Cristo, per i cristiani, è colui che è andato fino al fondo dell’amore, rivelandolo in pienezza. Lì è il principio. Ad una legge impersonale si sostituisce qui la relazione a qualcuno: relazione che apre quella abissale a Dio stesso e rinvia al contempo alle nostre relazioni vicine e attuali, al mio “prossimo”.
«Di colpo, il principio è lui stesso nella realtà. Non è un’idea, un sistema di rappresentazioni, un codice: è un essere umano, l’uomo per eccellenza. L’inversione che enunciavamo prima – partire non dai princìpi ma dal reale – può dunque essere mantenuta fino alla fine»[44]. Diventa chiaro che la “morale sessuale cristiana” è impensabile ed impraticabile al di fuori del percorso di fede nel suo insieme.
«L’amore è dunque il principio dei princìpi, la legge suprema. Ma come può l’amore essere una legge? Si può ordinare la giustizia, non l’amore. Contraddizione che, ove non chiarita, rischia di diventare mortale: non si potrà altrimenti che fare come se si amasse. “Se vi amo, caro signore, è solo per carità cristiana”. Chi desidererebbe un simile amore? L’amore su comando è una caricatura odiosa»[45].
Non è sufficiente abolire la vecchia legge (pena la deriva verso l’anarchia del desiderio). Ce ne vuole una nuova: ebbene, quella di Cristo non è una diversa dello stesso tipo, bensì una di un tipo diverso. La morale sessuale quindi non è: “Ama, ma...”; “Ama, a condizione che...”. Essa è: “Ama”; e non è un dovere. È ciò che l’uomo vive – quando vive in verità. Non è quindi più morale sessuale nel senso di sistema morale da applicare all’ambito della sessualità; si tratta invece di una trasformazione del proprio potere di amare, del desiderio dell’uomo, della sua libido. Essa non concerne solo le “cose sessuali”, ma tutto; perché la sessualità è presente in tutto l’umano.
«L’amore è rigore. Esso non si accontenta di cose qualunque. La sua legge è la legge del reale, logica della vita. La sua prima espressione è la vita di Cristo. Rigore più complesso dell’edificio formale dei princìpi, che passa per tutte le deviazioni che la realtà compie, e che si effettua, per noi, attraverso ciò che l’analisi rivela[46] di ciò che l’uomo è. Letteralmente, non c’è niente da aggiungere. Qui, ciò che aggiunge sottrae, rivelando la nostra incapacità di amare»[47].
È una questione di verità[48], non di etica: «Quale che essa sia, qualsiasi verità concernente la vita sessuale deve venir percepita come verità, in seno all’esperienza rischiarata dal principio uno e fondatore. Essa non è dunque mai semplicemente data, posta in una legge, mai passivamente “evidente”. È una verità che bisogna fare dalla propria vita, apprendere nel creare il proprio cammino, operare nelle relazioni umane reali. Ecco perché la sua stessa espressione non può essere fissata, e non si confonde mai con la ripetizione inerte di “princìpi ricevuti”. La fedeltà coniugale, il significato del celibato, ad esempio, sono oggi da inventare, perché è solo così che il movimento primo del Vangelo può riprendersi, che il Vangelo è un atto, e non una raccolta di precetti arcaici»[49].
Bellet avverte: non c’è alcuna garanzia che ciò funzioni. Qui «ci basta essere sicuri che la nostra “morale sessuale” (espressione ormai stonata) corrisponde bene all’orientamento evangelico»[50].

Assumere come luogo dei princìpi la realtà stessa, e ricondurre i princìpi al principio concreto che è l’esperienza evangelica, non sopprime la distanza tra i princìpi e la realtà. Al contrario. Ma la distanza è afferrata diversamente; essa diviene ciò che indica un cammino possibile e necessario. La distanza non appare più dunque come condanna di fatto senza speranza (si ricordi qui la critica precedente di Bellet alla posizione classica della tolleranza, prima illustrata: il cui errore è quello di rassegnarsi allo stato di fatto).
Il luogo della lotta si sposta. (Esempio: l’uomo che si accusa di tradire sua moglie, ma non prende coscienza del fatto che la ha talmente trascurata per dedicarsi al guadagno che ora lei non fa più niente per rendersi desiderabile). Questa “conoscenza dell’amore”, che prende il posto della “morale sessuale”, mette fine alla stessa sessualità come ambito determinato: la sessualità, insiste Bellet, impregna tutto ciò che è umano. Anche la formazione, di conseguenza, va concepita come approfondimento, come crescita, non come imposizione di divieti né come informazione sessuale neutra, priva di orientamento. Né bisogna spaventarsi di fronte all’apparente regresso che a volte accompagna un progresso reale: se ad esempio un prete pederasta si innamora infine di una donna, per quanto problematica la situazione sia, non è forse meglio che egli sia uscito dalla sua pederastia?[51]
Fine dell’ipocrisia. Fine del regno del “come se”, dell’“in principio” e del “si deve”. Fine della scissione tra la morale e i costumi. «Fine, è vero... mai finita; compito sempre da riprendere. L’uomo, a titolo sia individuale sia collettivo, è rinviato alla responsabilità di condurre la propria vita; cosa certo più difficile che ripetere indefinitamente la lista delle cose permesse e di quelle vietate»[52].

Ma pur ammettendo che tutto ciò sia fondato (ciò su cui non tutti sono d’accordo), il problema dei princìpi non è ancora risolto: il divorzio è permesso o no? Il celibato dei preti è obbligatorio?
Bellet distingue:
• l’orientamento, cioè il principio e la verità della vita sessuale che tramite esso ci si rivela nella nostra esperienza;
• le mediazioni, quali che siano, comprese quelle che non hanno niente di “morale”, ma che sono utili o necessarie per farci avanzare nella distanza che separa lo stato attuale delle cose, personale o collettivo, dalla vita libera e vera;
• le regole.
Le regole sono di ordine sociale. Esse assicurano, in un dato contesto culturale e politico, il diritto delle persone e l’ordine generale. Esse non sono prive di rapporto con l’orientamento; conviene anzi che – nella misura del possibile – vi si ispirino e tendano a realizzarlo. Ma le regole non vanno confuse con l’orientamento.
«Le regole sono, per se stesse, necessariamente relative. Esse sono sempre un compromesso tra l’“ideale” e ciò che la società può. Quando lo si dimentica, esse si sganciano e vanno a concernere un mondo fittizio. Infine, esse hanno necessariamente un lato tecnico, non soltanto per il loro aspetto giuridico, ma per il loro inevitabile legame con le condizioni culturali e lo stato delle conoscenze: biologia, sociologia, psicologia in particolare».
Le regole possono variare, perché sono contingenti. Non in qualunque modo, certo, sempre nei limiti oltre i quali l’orientamento verrebbe negato. Ma è disastroso prendere questi limiti per l’essenziale della morale sessuale. Essi sono l’aspetto limitativo, cioè negativo. Essi dunque non sono affatto il “senso della vita”: essi non sono affatto un senso. Utilizzare le regole nei casi ad esempio di divorzio o di celibato può certo avere motivi di ordine sociale. Ma confondere questo con ciò che “Dio chiede” è certamente un abuso. Si tratta di una incapacità di comprendere il senso del cristianesimo.
Le regole dunque possono cambiare: ma è sbagliato intendere questo cambiamento come progresso per accumulazione: la conoscenza del Vangelo non è l’accrescimento della mole dei divieti. Il cambiamento, al contrario, può presentarsi come abbandono di una prescrizione letterale. I cristiani non hanno, osserva Bellet, una raccolta di leggi da completare (nel Nuovo Testamento non c’è nessun equivalente del Levitico).
Ma ciò porta inevitabilmente con sé il rischio dell’errore, presso l’individuo come presso l’autorità: colui che giudica onestamente una regola superata, inapplicabile o addirittura ingiusta, e che perciò non la osserva, è ancora possibile considerarlo cristiano? È ancora possibile per lui conservare l’accordo con il Vangelo e con la Chiesa, pur essendo un trasgressore della regola morale? «Dopo ciò che abbiamo detto, la risposta, ci pare, si impone: sì, è possibile. La prova ne è che certe “situazioni”, giudicate intollerabili, divengono in seguito socialmente riconosciute, con il ben noto ritardo del diritto sulla vita»[53].
Ma la verità non è questione di data ufficiale. In questo ambito come in tutti, l’opinione e l’autorità stessa si allineano, a posteriori, su delle trasgressioni “ragionevoli”. L’esperienza precede la regola.
È chiaro, conclude Bellet, che il rischio della trasgressione irragionevole permane. Però, quando sono fondate, le trasgressioni sono tali sempre rispetto alla regola, mai rispetto al principio o alle verità. «Esse, al contrario, costituiscono una verità più grande. Se ne vedrà il segno – l’albero di giudica dai frutti – in una maggiore onestà, fecondità, pace interiore e – segno tra i segni – carità effettiva»[54].
Tuttavia, sottolinea Bellet, non va misconosciuto che è inevitabile che “la morale sessuale” possa essere percepita come insieme di divieti. È anche necessario, poiché l’uomo è ciò che è, che essa si presenti come divieto del godimento (nel senso del principio del piacere). Ciò è coerente con l’orientamento cristiano di rifiuto dell’anarchia del desiderio. E può anche darsi che, per alcuni di essi, sia repressione dell’istinto e niente più. Ma una Chiesa che permettesse tutto sarebbe una cattiva madre, abbandonando i suoi figli a una dipendenza tanto grave.
D’altro canto, secondo Bellet, non c’è niente di più falso per la Chiesa e l’insegnamento cristiano che lasciarsi rinchiudere – o rinchiudersi deliberatamente – in un ruolo repressivo. Se ne ritrova snaturato il Vangelo, che dice tutt’altra cosa, ed il divieto stesso. «Una “morale dell’amore” in cui l’amore non c’è più, ma non cessa tuttavia di venirvi nominato, è il cammino della perversione e di tutti i disastri»[55].

Bellet è dunque persuaso che la morale cristiana, in particolare in ambito sessuale, non si riconduca affatto a una norma codificata, neanche ove ad essa si aggiungano considerazioni teologiche o pastorali; la sua funzione è piuttosto quella di rischiarare, liberare, formare l’uomo per una vita nuova, in modo ch’egli sappia da sé, nella sua condizione reale, vedere chiaro ed agire retto. «Morale, se di morale si tratta, di secondo grado. [...] Non un insieme di ricette, ma una maniera di condursi, un atteggiamento»[56].

Panikkar: l’unità originaria di tutte le cose
Il punto di partenza di Panikkar è l’originaria unità di tutte le cose, in generale, e dell’uomo, in particolare: «Io posso chiamare e dire: intelligenza, corpo, anima, ecc., ma è un modo di parlare. Posso dire: dito, unghia, ecc. Ma non posso ipostatizzare[57] e fare camminare l’unghia sola o il corpo solo o le anime sole, come in quei bei quadri delle vecchie chiese in cui si vede soltanto la metà superiore delle anime del purgatorio, che spingono il bambino a chiedere alla mamma se le anime del purgatorio finiscono a punta»[58]. La “frantumazione” costituisce per Panikkar la crisi del mondo moderno: «La crisi dell’uomo contemporaneo [è] una crisi di frantumazione. La frantumazione dell’uomo è scaturita, a mio parere, dalla frantumazione della conoscenza: la frantumazione della conoscenza ha portato alla frantumazione del conoscente, quindi dell’uomo. Ci siamo specializzati così tanto che abbiamo ritenuto che la realtà si potesse spezzare in piccole particelle. [...] Questa metodologia, valida per una certa scienza, uccide la realtà e rende impossibile la vera conoscenza»[59].
Ma il problema dell’uomo non investe soltanto la sua possibilità e capacità di conoscenza, bensì il suo intero essere. Panikkar lo ha espresso anche in termini più specificamente cristiani: «La vita cristiana è, prima di tutto, una, e dove si rompe l’unità – che a volte potrebbe tradursi in naturalezza – non c’è autentica vita di Cristo nel nostro essere»[60]. La conoscenza infatti, se è vera conoscenza, include sempre una dimensione che la rende “salvifica”[61]: «La conoscenza di Cristo, gnosis Christou (Fil III, 8), quella conoscenza pregna di vita eterna (Gv XVII, 3), non può essere una conoscenza frammentata. Nessuna conoscenza parziale può portare alla salvezza, alla realizzazione. Ogni conoscenza è frammentata non soltanto quando il suo oggetto si è distaccato dal resto della realtà, ma anche quando il soggetto conoscente ha spezzato il suo conoscere riducendolo a percezione sensibile o intelligibilità razionale, dimenticando la conoscenza del terzo occhio, come afferma più di una tradizione senza escludere quella cristiana (oculus carnis, oculus mentis et oculus fidei). La conoscenza salvifica, la gnosis cristiana o lo jnana vedantico, è quella visione olistica che assimila il conosciuto al conoscente e che gli scolastici hanno chiamato visio beatifica quando ha raggiunto la sua pienezza»[62].
La conoscenza non è dunque finalizzata a una mera erudizione né alla realizzazione di un qualche scopo particolare, ma alla salvezza. Se questo è vero, allora non possiamo pensare di conoscere il bene senza diventare per ciò stesso buoni. La teoria e la prassi sono legate, e non possono essere separate: «La pura teoria, il mero pensiero, il semplice cambiamento di coscienza – sia pure di “coscientizzazione” – senza una prassi concomitante, non solo è impotente, ma è miope: vede soltanto là dove la sua limitata posizione glielo consente. D’altro canto la pura prassi, il semplice cambiamento di strutture – sia pure rivoluzionario – non accompagnato da una teoria, non solo è cieco, ma è anche incapace di produrre un qualunque mutamento positivo: cambia soltanto l’ordine dei fattori e delle persone, ma permangono gli stessi schemi profondi»[63]. Apprendere significa «convertirsi al mondo delle cose imparate»[64]; senza una tale conversione, non c’è né apprendimento né crescita.

Panikkar: spiritualità
Spiritualità è atteggiamento di colui che considera il tutto come l’uno, la parte come parte del tutto, «tentativo di percepire e di vivere tutta l’ampiezza e il respiro della realtà senza sacrificarne alcuna dimensione»[65]. Essa non è legata a nessun dogma o istituzione[66] ed è integrale, nel senso che coinvolge l’uomo nella sua totalità[67]. Ne consegue che, poiché l’esperienza deve essere davvero personale, non ci si può affidare all’esperienza di quelli che ci hanno preceduto, né ad un metodo standard, uguale per tutti e valido una volta per sempre, né tanto meno a degli “esperti”. Anche se resta fermo che ognuna di queste cose può rivelarsi il trampolino migliore per qualcuno, il salto va spiccato sempre personalmente. Guardare dal bordo della piscina gli altri tuffarsi non è come tuffarsi: «La via è tale soltanto se noi la percorriamo veramente, così come una canzone è tale soltanto quando viene cantata»[68].
Ma c’è una teologia, che Panikkar definisce “elitaria”, che si oppone a questa visione delle cose, relegando il ruolo dell’esperienza personale in secondo piano e ponendo al centro dell’attenzione il valore dell’intermediazione e della comprensione intellettuale: «“Vieni, cioè seguimi, osserva quello che dal profondo del tuo cuore sai che si deve fare ed essere, fai un primo passo, comincia dalla prassi, non dalla teoria e nemmeno da quello che ti dicono gli altri, ma vieni e allora vedrai”. Quello che vale è la visione, l’esperienza diretta, come dissero i samaritani alla donna del pozzo (Gv IV, 42). Una certa teologia, che si potrebbe chiamare elitaria, contrariamente a tanti altri “venite” del maestro, (“venite a me” Mt XI, 28; “lasciate che i bambini vengano a me” Mt XIX, 14; Mc X, 14, ecc.) ci ha voluto far credere che l’esperienza di Cristo, e dunque della sua grazia, sia riservata ai pochi che raggiungono le alte vette della contemplazione, e che l’uomo comune, cioè i piccoli, non possano andare, né vedere niente…»[69].
Contro questi teologi, sostenitori di una rigida ortodossia, Panikkar si è scagliato all’inizio del libro La nuova innocenza: «Questo libro tanto positivo è una denuncia nei confronti di un certo modo di fare teologia; invita ad un esame di coscienza quei teologi di corte, sempre presenti nella chiesa degli Eusebi di Cesarea, che intendono fare del linguaggio della rivelazione il fondamento dei privilegi di una classe di mandarini, di un clero, di un cerchio riservato di scribi. Ancora oggi c’è chi pretende di chiudere Dio dentro un tecnicismo che convertirebbe gli specialisti del linguaggio in intermediari indispensabili. [...] La teologia è [invece] una metodologia per ridare al popolo di Dio l’uso della parola»[70].
Secondo Panikkar, l’identificazione tra la fede e l’ortodossia (che è invece l’espressione concettualmente “corretta” della fede stessa) nasce dalla visione dell’uomo come animale razionale: se la più alta facoltà dell’uomo è la ragione, allora la migliore attestazione di fedeltà non potrà che esprimersi in una adesione razionale ad un certo numero di proposizioni (rivelate). Pertanto, in quest’ambito, qualsiasi dissenso sul piano concettuale implicherà anche un dissenso sul piano reale oggettivo. Ecco perché l’eretico non è solo nell’errore, ma anche in “cattiva fede”[71].
È chiaro da quanto detto fin qui che «provare ad immobilizzare l’atto di fede facendolo dipendere da formulazioni inalterabili, non solamente sarebbe tradimento contro la storia, ma negherebbe anche quello che la fede pretende di essere: il legame ontologico che pone l’uomo in relazione con il trascendente. La fede non è legata essenzialmente a una dottrina fissa, ma necessita di un veicolo intellettuale o anche, nella maggioranza dei casi, di un sistema intellettuale per esprimerla. Una stessa fede si può cristallizzare in diversi sistemi di credenza».
Per superare questa ortodossia non è sufficiente l’ortopoiesi, cioè la riduzione sostanziale della fede a etica: se è vero che un comportamento morale negativo può ostacolare una vita di fede, sottolinea Panikkar, non è altrettanto vero che una vita etica irreprensibile equivale a una vita di fede. È necessario passare all’ortoprassi: «Abbiamo preso i concetti aristotelici di poiesis e di praxis come utili per le nostre distinzioni. Con il primo, intendiamo l’attività umana il cui risultato si applica all’oggetto esterno verso il quale si dirige l’atto; con il secondo, l’atto ritorna verso l’agente stesso e lo trasforma».
Né l’ortodossia né l’ortopoiesi si rivelano adeguate alla vita umana, la quale «non si esaurisce né nel processo del pensiero né in costruzioni estrinseche – l’uomo è molto più di uno spettatore o di un costruttore del mondo. Innanzitutto è un attore (che compie atto); fondamentalmente un autore, che si fa (crea se stesso). [...] La sua attività non è semplicemente poiesi, ma soprattutto prassi». Questa critica dell’ortodossia e dell’ortopoiesi non trascura il fatto che si tratta di due ipotesi comunque legittime dal punto di vista dell’autocomprensione delle religioni: «Le religioni non pretendono come prima cosa di insegnare una dottrina o proporre una tecnica. Pretendono di salvare l’uomo, cioè liberarlo o, in altre parole, aprirgli il cammino per la pienezza del suo essere, qualunque cosa sia questa pienezza. Quando questo fine è interpretato come una visione intellettuale, l’aspetto dottrinale viene in primo piano. Se, d’altra parte, è visto come ricompensa per una vita, per una condotta morale, i valori pratici hanno la supremazia». Ma per Panikkar la verità “che rende liberi” è una verità esistenziale, non una dottrina[72]; per cui solo la prassi, quando è ortoprassi, può essere attività salvifica, nel senso inteso finora: «Prassi è quella attività umana che modifica e modella non solamente l’esistenza esteriore dell’uomo, ma anche la dimensione interiore della sua vita. L’effetto della prassi fa parte dell’essere stesso dell’uomo: è l’attività salvifica per eccellenza»[73].
La prassi è ortoprassi quando non segue un comandamento morale esteriore e quando non si rivolge al risultato dell’azione come se tutto vi si esaurisse; essa scaturisce spontaneamente dal movimento interiore di chi cammina sulla sua personale via. La verità va assimilata, non “contrabbandata” né semplicemente “importata”, per così dire. Così come quando mangiamo il pane non siamo noi a diventare pane ma è il pane che diventa carne, sangue, ossa del nostro corpo, allo stesso modo le dottrine e le morali devono essere “digerite” da noi, fino al punto in cui la nostra vita ne sarà espressione immediata, che non ha più bisogno della mediazione dell’intelletto per venire alla luce: l’atto viene fuori dal nostro essere e non dall’ingiunzione morale che impone al nostro agire una certa direzione. Ecco perché Panikkar dice non solo che la saggezza non è un’attività esclusivamente razionale, ma soprattutto che assomiglia piuttosto ad un «non-sapere» che a un sapere[74].
Un esempio – tratto dall’esperienza missionaria in Giappone di Luciano Mazzocchi, missionario saveriano, che ha scoperto lo zen imparando a percorrere “la via del tè” – servirà a chiarire ulteriormente questo punto: «Un giorno chiesi alla maestra del tè come mai ci insegnava i tanti modi di servire il tè, l’uno dopo l’altro, senza permetterci di impararli a uno a uno col dovuto tempo e alla perfezione. Ella mi rispose: “Affinché tu non dica che l’hai imparato alla perfezione!”. Io replicai: “Ma se studio, è proprio per imparare”. Allora soggiunse: “Ma se dici che l’hai imparato, allora non l’hai ancora imparato. Se uno ha imparato sul serio, non sa più di aver imparato”. [...] Un giorno era toccato a me, tra i vari discepoli, di servire il tè a un gruppo di ospiti che avevano fatto visita alla casa del tè dove ci radunavamo una volta la settimana. Mi accorsi che avevo sbagliato dimenticando alcuni passaggi. A modo mio abbassai il capo (mi venne spontaneo essendomi accorto dello sbaglio) e rimediai con la naturalezza a me possibile. Dopo aver servito il tè e una volta partiti gli ospiti, la maestra mi disse: “Proprio così!”. “Ma come? Io ho sbagliato!”, le risposi un po’ confuso come se fossi stato preso in giro. “Quando si sbaglia, si fa così. Questa è la via!”»[75].

Panikkar: la nuova innocenza
Meta di questa spiritualità è un livello di coscienza caratterizzato dalla spontaneità e dalla naturalezza, in cui la conoscenza non ostacola l’azione e quest’ultima può essere compiuta senza premeditazione né calcolo.
Se la spontaneità deve nascere dall’integrazione di teoria e prassi qui delineata, allora la ragione non può essere la guida per le azioni dell’uomo: la nuova innocenza ricorda che alla ragione spetta il potere di veto, ma non la funzione di dirigere le azioni umane. Questo compito spetta invece all’amore (ciò si cui quasi tutte le tradizioni sono d’accordo): la nuova innocenza è spontaneità, anche se non ogni spontaneità è innocente, ma solo quella che sorge da un cuore puro[76].
Ma se, ancora, la ragione deve rinunciare a questo ruolo, allora l’uomo dovrà rinunciare a vivere nella certezza che soltanto la ragione può dare, ed imparare ad avere fiducia nella realtà in cui si trova; l’ossessione per la sicurezza denota «mancanza di maturità spirituale e di profondità intellettuale»[77].
Questa rinuncia alla certezza non è però per Panikkar una triste necessità, qualcosa cui suo malgrado l’uomo deve conformarsi se vuole aspirare alla spiritualità qui descritta; il suo tono non è certo rassegnato quando afferma, al contrario, che «se so che non ho né posso avere la certezza assoluta in nessuna cosa, allora incomincio a essere uomo e non angelo; incomincio a scoprire che mi devo fidare di qualcosa o di qualcuno che non sono io»[78]. Si tratta di tornare a vedere le cose nelle loro giuste proporzioni, di prendere coscienza, finalmente, che la realtà non l'ho fatta io, e che adattarsi ad essa è l'inizio della saggezza[79].
Panikkar utilizza il termine “nuova innocenza” in senso tecnico, per esprimere «quell’atteggiamento umano che non si aspetta ricompensa. [...] Questo è ciò che tanti mistici dicono quando ci parlano di agire senza perché, di vivere il presente. Non si tratta di rinunciare alla ricompensa. [...] Si tratta di non sentirne la necessità»[80]; la nuova innocenza, infatti, «è spontaneità. Essa si contrappone al desiderio, che presuppone sempre un fine, e dunque una oggettivazione delle cose; essa è aspirazione, non è mossa dall’esterno, ma viene dall’interno. La nuova innocenza è infatti il regno della libertà. E la libertà non ha motivazione»[81]. Essa inoltre «non dipende né dalla volontà né dalla comprensione. Se la voglio, sarà per qualche cosa: perché è buona, per esempio, e allora la perdo. Se la comprendo, l’ho portata nel campo della mia coscienza riflessiva, e così la distruggo. È una grazia, un dono che diventa cosciente una volta che si è ricevuto; un dono che ci mantiene nell’attitudine di costante ringraziamento, che ci può accompagnare senza che ce ne rendiamo conto, ma mai ci può precedere coscientemente. E nemmeno può essere mai un progetto: non si può programmare, non entra nel computer»[82]. La nuova innocenza «rappresenta la guarigione della ferita provocata nella cultura occidentale moderna dall’illuminismo separando l’epistemologia dall’ontologia, facendo della conoscenza la caccia dell’oggetto da parte di un soggetto che deve soltanto controllare che le sue armi (categorie) siano pulite. È molto significativo che un Heisenberg debba ricordare ai filosofi che il fatto di puntare il fucile già mette in allarme la lepre, che la conoscenza da parte del soggetto già modifica l’oggetto. Ogni conoscenza riflessiva all’interno di un’epistemologia separata da ogni ontologia non è più innocente, ha ferito l’oggetto. Innocente è chi non fa male (nòcere). [Invece] la riflessività innocente avviluppa in un medesimo atto il conoscente e il conosciuto, proprio perché sa che l’uno non è dato senza l’altro. Conoscere non vuol dire cacciare ma crescere insieme, il conoscente e il conosciuto. Sono vincolati. Non vi è cosa senza l’uomo. La cosa non è né “in sé” né “in me”. La cosa è con me: esse est co-esse»[83]. Infine, «la nuova innocenza è la metanoia, si trova oltre il mentale, senza però negarlo. Il superamento non è la negazione. [...] La nuova innocenza è il presente che si è liberato dal passato e dal futuro, dal peso del passato e dalla paura del futuro»[84]. Per contro, la nuova innocenza non è «una cosa (sostanza) né uno stato. Ma non è nemmeno una chimera»[85].
Ci si potrebbe chiedere: “Come si può conseguire questa nuova innocenza? C’è una strada da seguire? Esistono delle tecniche?”. Panikkar spiega che essa, come d’altro canto la saggezza, appartiene al regno della “grazia”, del dono, della gratuità; pertanto, non si può né costruirla, né meritarla, né incamminarsi verso di lei: «Non voglio cadere nella tentazione di fornire delle tecniche per arrivare alla nuova innocenza. Non ce ne sono. È il regno della grazia, dicono la saiva siddhanta, il cristianesimo e tante altre tradizioni»[86].
Resta da chiarire perché Panikkar la descriva come “nuova”[87]. L’innocenza è nuova perché l’uomo ha perduto quella originaria con la quale è venuto al mondo: «La prima innocenza perduta fu la perdita della coscienza estatica. Eravamo con le cose. [...] La perdita di questa innocenza è la scoperta dell’oggetto. Le cose diventano oggetti. La coscienza ne è il soggetto. [...] La nuova innocenza non è un ritorno alla prima. [...] La nuova innocenza supera la dicotomia soggetto/oggetto, [...] partecipa alla realtà ed è cosciente della realtà della quale la sua stessa partecipazione fa parte»[88]. Panikkar entra anche maggiormente nel dettaglio di questa perdita, chiarendo che «la perdita dell’innocenza consiste nello scegliere l’albero della conoscenza, dimenticando l’albero della vita. [...] La vecchia innocenza è stata perduta come la si perde oggi: per la conoscenza svincolata dall’amore, per la mancanza di rispetto verso il mistero»[89].

Conclusioni
Bellet e Panikkar sono concordi nel ritenere che il cristianesimo non sia né un sistema dottrinario (ortodossia) né un sistema disciplinare (ortopoiesi), bensì un dito puntato verso la verità “tutta intera”. Il cristianesimo è una lente che permette all’uomo di approfondire lo sguardo sulle innumerevoli pieghe della realtà, senza deformarne l’immagine, senza ridurla, senza tingerla di un unico colore. Il cristianesimo “presenta” (“offre”, e non “rap-presenta”, come in un’idea o in un modello) all’uomo una realtà che non è né esclusivamente transeunte né soltanto eterna, ma “tempiterna”, per dirla con Panikkar[90]. Sia la tendenza a volere tutto nell’aldilà sia quella a volere tutto nell’al di qua sono per il cristianesimo parimenti riduttive, parziali, sbagliate.
Il cristianesimo non è un insieme di presupposti (scritturistici, morali, antropologici, ecc.) da porre a fondamento di una riflessione filosofica successiva; esso non è una specie di statuto di una setta religiosa che si autodefinisce “cattolica” e nutre ambizioni filosofiche. Il cristianesimo è piuttosto, come Bellet e Panikkar lo intendono, ciò che apre all’uomo lo spazio della relazione con il divino (che è un aspetto della realtà, secondo questi due Autori, non una chimera), esperienza sulla quale può innestarsi un’analisi non pregiudiziale (quindi filosofica, nel senso più ampio) di tipo personale, collettivo, storico.
Per Panikkar e Bellet l’etica non è una questione di regole, ma di vissuto. Nel corso di un’intervista, alla domanda: “lei non usa mai la parola etica. Perché?”, Panikkar rispose: “perché in ogni etica vedo la tentazione di assolutizzare le proprie regole. Abbiamo certamente bisogno di un ethos ma questo non va legalizzato né assolutizzato”[91]. Per questi due Autori l’etica non è questione di regole da rispettare, ma di percorso interiore, maturazione, trasformazione. A volte i “fan” della morale tradizionale reagiscono dicendo che la morale ha come fine proprio quella trasformazione, e che – appunto perciò, per poterlo conseguire – è necessario osservarla scrupolosamente; il problema è però che l’uomo deve essere coinvolto in questo processo, deve poter interagire con la regola, altrimenti il rischio è che in attesa di questo “salto di qualità” passi inutilmente (e inconsapevolmente) tutta la vita. L’uomo non può in questo senso “subire” la morale. Altre volte dicono che la trasformazione dell’uomo dipende da Dio, non dall’uomo. Citando Ezechiele 11,19: “Darò loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo metterò dentro di loro; toglierò dal loro petto il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne”. Ma il punto è che se Cristo tratta gli uomini “da amici” e i suoi sono “insegnamenti” (e non “comandamenti”), questi uomini devono essere effettivamente in grado di imparare. Imparare qualcosa vuol dire farlo proprio, non mandarlo a memoria senza capirne nulla. Questo non significa che l’uomo sia autosufficiente, bensì che debba partecipare attivamente a quell’impresa umano-divina cui diamo il nome di “realtà”. L’iniziativa della grazia è certamente di Dio; ma se l’uomo non si dispone ad accoglierla (il che non è un atteggiamento passivo, ma in certo qual modo uno “stare sveglio”, come nella parabola delle dieci vergini) non la riceverà mai. Insomma, per Panikkar e Bellet, oggettivare e assolutizzare la morale è un errore; del resto, la morale non ha bisogno di essere “oggettiva” per essere “divina”. Quidquid recipitur, ad modum recipientis recipitur.
In ultima istanza il cristianesimo non è una semplice teoria, né un elenco di doveri. Il cristiano è tale e ben contento di esserlo perché sperimenta nel cristianesimo un “gusto” particolare, un gusto per la vita, che è in qualche modo simile – per usare un’immagine familiare – al gusto per la coltivazione delle piante: colui che vi si dedica non lo fa per un obbligo morale, né perché è razionalmente “giusto”, ma per la gioia di vedere la pianticella crescere, svilupparsi, divenire rigogliosa e bella, a suo modo. È un gusto che non è qualcosa di puramente estetico e che, per contro, ha disgusto della morte, della sopraffazione, dell’avvilimento, della disperazione. Il cristianesimo sa e vede e gusta ogni giorno la novità e la grandezza della vita, dell’essere: perciò la sua è speranza e non illusione: cioè constatazione che la vita sorpassi sempre tutto ciò che noi possiamo (“La vita ha più fantasia di noi”, ha detto con una meravigliosa espressione il regista francese Truffaut), non teorizzazione di una nemesi o di una compensazione “nell’aldilà”. Il cristianesimo è il buon senso del dare da bere all’assetato (e cos’altro si potrebbe fare?), non una teoria astrusa. Ciò senza alcun riduzionismo: la dottrina e la morale fanno parte del cristianesimo e certamente non è possibile escluderle, così come è impensabile salvare del Vangelo quanto è comprensibile e accomodante (come il buon senso accennato) ed escludere quanto è invece incomprensibile o problematico (ad esempio, la resurrezione, i sacramenti, la Trinità)[92]. Quello che ho cercato di spiegare è proprio come il pensiero di Panikkar e Bellet si proponga come alternativa ad ogni riduzionismo: così ad esempio a quello dell’uomo come “animale razionale” (per il quale la moralità consiste in una adesione intellettuale a una determinata dottrina); o di quel cristianesimo il quale, per salvare le anime nell’aldilà, condanna gli uomini nell’al di qua. Bisogna avere cura del tutto, diceva Periandro di Corinto.
Ogni riduzionismo è una parzializzazione, e ogni parzializzazione implica una scissione. Bellet e Panikkar ritengono che sia possibile vivere una vita cristiana fondata non sulla scissione (e sull’ipocrisia, la frustrazione, la lacerazione che ne conseguono), ma sull’unità, l’armonia, la pace. Dove ha termine la millenaria contrapposizione tra la fede e la critica, dove la fede smette di essere ciò che vuole accecare l’uomo per imporgli una visione ipersemplificata della vita, e la ragione cessa al contempo di voler essere l’unica luce dell’uomo. Dove finisce la contrapposizione tra Dio e l’uomo, tra l’autorità e la libertà, tra una religione che “lega” (e dunque limita) e l’anelito dell’uomo a realizzare se stesso a proprio modo, fuori da imposizioni e schemi preordinati[93]. Un cristianesimo libero, responsabile, sereno e intelligente di sé e delle cose; e un cristiano che all’affamato non opponga “evangelicamente” la legge del sabato o la sentenza “Beati quelli che hanno fame”, ma possa sfamarlo. Perché la fame, che sia di pane, d’amore o di Dio, non conosce calendari o interdizioni; solo un uomo che saprà essere padrone del sabato potrà saziarsi, e solo una religione che lo incoroni come tale potrà ispirarlo. Questa è la sfida del cristianesimo, fin dalle origini; questo è il senso del cristianesimo. Questa è tutta le Legge e i profeti (Mt 22,40).

Bibliografia

Tutto.
Leggete dunque a caso.
Fortunatamente, il caso non esiste.

Qualche consiglio.
Leggete i grandi, rileggeteli: vi innalzeranno.
La moda passa.
Leggete secondo la vostra inclinazione.
Leggete anche contro l’inclinazione.
Dimenticate: rimane la vostra sostanza[94].


NOTE
[1] M. BELLET, Réalité sexuelle et morale chrétienne, p. 28n.
[2] Cfr. R. PANIKKAR, La porta stretta della conoscenza, RCS, Milano 2005, p. 216: «Forse non ci siamo resi ancora sufficientemente conto che vivere umanamente sulla Terra non significa seguire leggi morali, fisiche o religiose, né leggi di alcun tipo. Chiunque è nato dallo Spirito [che è Spirito di Verità e di Libertà] non sa da dove viene e dove va (Gv III,8). L’uomo non è una macchina».
[3] Si ricordi che Bellet ha scritto questo testo nel 1971.
[4] P. 17.
[5] P. 18.
[6] P. 21.
[7] P. 22.
[8] Aspetto del cristianesimo che Bellet ha denominato “teatralità”. Cfr. Le Dieu pervers, pp. 29 ss
[9] P. 23.
[10] P. 27.
[11] “Tenerle sempre bene a mente”: espressione che illumina ancora meglio la presenza costante, ineliminabile dell’oggetto del divieto nella coscienza del soggetto.
[12] P. 28.
[13] P. 29.
[14] P. 31.
[15] Interpretando così il “Date a Cesare quel ch’è di Cesare...”.
[16] Interpretando invece così “Lo Spirito è pronto, ma la carne è debole”.
[17] P. 35.
[18] P. 37.
[19] P. 38.
[20] P. 38.
[21] P. 39.
[22] P. 39.
[23] P. 50.
[24] P. 52.
[25] P. 53.
[26] Ciò che poi impedisce lo sviluppo reale, armonioso e appropriato in nome di uno sviluppo forzato. È il caso di quegli amanti che pretendono l’amore o la libertà: cfr. M. BELLET, L’amore lacerato, servitium, Gorle (BG) 2001.
[27] Si pensi ad esempio a Sade, per il quale il desiderio – per il solo fatto di esserci – implica la necessità della soddisfazione; per il quale ancora la donna è creata dalla natura allo specifico fine di soddisfare le voglie dell’uomo (motivo per cui essa deve svolgere questo ruolo). Sistema ben poco libero, in cui chi trascura i doveri del libertinaggio, merita la più dura punizione.
[28] Bellet porta un esempio: poiché il ritmo dell’uomo, nell’atto sessuale, è diverso da quello della donna, se l’uomo resta ancorato al suo desiderio, la donna non soddisferà mai il suo. Il filosofo, che non è solito sacrificare la convenienza degli argomenti alla loro incisività, non manca, quando necessario, di abbandonare ogni scrupolo: «Capita che degli uomini, poco osservanti della morale, sappiano ben soddisfare la propria partner; per contro, mariti dalla moralità più rigida danno alle loro mogli la sensazione di essere “trattate da prostitute” (sic) [il sic è di Bellet]. Ciò non elimina affatto la portata di ciò che precede; mostra soltanto, una volta di più, come l’applicazione rigida dei “princìpi” possa essere estranea alla realtà» (p. 58n.).
[29] P. 61.
[30] P. 66.
[31] Definizione della psicanalisi data da Freud al pastore Pfister. Bellet recupera il termine per sottolinearne l’intenzione.
[32] P. 66.
[33] P. 67.
[34] La nostra saggezza tradizionale lo esprime dicendo che “le bugie hanno le gambe corte”. Tuttavia, è questa una verità d’Oriente quanto d’Occidente: un detto popolare cinese (notizia che devo a Panikkar) recita che non è possibile restare a lungo su di un solo piede. Nessuna “verità” teoretica può comandare a questa realtà di essere diversa. Siamo probabilmente in presenza di quella che Bellet chiama verità di “secondo grado”.
[35] P. 68.
[36] P. 70.
[37] Bellet porta l’esempio degli immigrati che vivono in Francia in condizioni disagiate, anche quando non miserevoli, in un ambiente estraneo, lontani dalla famiglia e dalla moglie, in una situazione di isolamento e di astinenza sessuale forzata; è assurdo, commenta, pretendere di applicare ad essi la medesima morale dei parigini che vivono loro accanto.
[38] P. 78.
[39] P. 80.
[40] P. 81. Bellet analizza la figura del Cristo come terapeuta in Le Dieu pervers, pp. 89-110.
[41] P. 84.
[42] P. 86.
[43] P. 86.
[44] P. 88.
[45] P. 91.
[46] Né la psicanalisi né l’analisi marxista in quanto tali. Conta per Bellet l’atteggiamento di questi due “maestri del sospetto”: bando alla finzione!
[47] P. 93, parafrasi mia.
[48] Si tratta di una verità esistenziale, non teoretica. Questo aspetto è chiarito dalla successiva citazione.
[49] Pp. 94-95.
[50] P. 96.
[51] Cosa significherebbe qui attenersi ai princìpi? Lasciare che egli sprofondi nella sua condizione precedente?
[52] P. 103.
[53] P. 109. Bellet porta ad esempio il cambiamento di posizione della Chiesa sul tema dell’usura: nel Medioevo bandita tout court, oggi accettata all’interno di certi limiti. Ed aggiunge: così, ad esempio, del prete che si sposa: un tempo condannato, escluso; oggi “ridotto al laicato”, ma accettato. Domani?
[54] P. 111.
[55] P. 111.
[56] P. 115.
[57] «Ipostasiare» nel testo.
[58] R. PANIKKAR, Dimensioni mariane della vita, La locusta, Vicenza 1972, p. 51.
[59] ID., Ecosofia: la nuova saggezza. Per una spiritualità della terra, Cittadella, Assisi (PG) 1993, p. 17.
[60] ID., Dimensioni mariane della vita, cit., p. 32.
[61] Comunque si voglia intendere il termine “salvifica”: che conduce alla realizzazione, al compimento, all’illuminazione, alla salvezza ecc. Non c’è bisogno qui di immaginare che la validità di quanto qui si dice vada ristretta necessariamente all’ambito delle cosiddette religioni organizzate; Panikkar – che mette in discussione la stessa definizione di religione – include infatti nelle forme di spiritualità anche l’ateismo ed il marxismo: «Non soltanto a ogni essere umano è permesso di prendere parte a questo dialogo, ma anche ogni ideologia, ogni visione del mondo e ogni filosofia hanno altrettanto diritto a partecipare. Le cosiddette religioni non hanno il monopolio sulla religione. Durante il dialogo stesso bisogna chiarire che cosa si intenda per religione. Se è un dialogo sulle questioni ultime di vita e di morte, allora un marxista, un umanista o uno scienziato hanno altrettanto diritto di parlare di qualunque persona cosiddetta religiosa»: R. PANIKKAR, L'incontro indispensabile. Dialogo delle religioni, Jaca Book, Milano 2001, p. 29. In più, Panikkar intende per ateo un atteggiamento comunque religioso, il quale – partendo dalla negazione di qualsiasi trascendenza – fonda sull’accettazione della pura contingenza la ricerca del senso ultimo della propria vita. Cfr. ID., Il silenzio di Dio. La risposta del Buddha, Borla, Roma 19922, pp. 167 ss.
[62] ID., La pienezza dell’uomo. Una cristofania, Jaca Book, Milano 20002, p. 25.
[63] ID., Il silenzio di Dio, cit., p. 9. Cfr. ID., “Filosofia e rivoluzione”, in «Giornale di filosofia.net», aprile 2008.
[64] ID., La nuova innocenza, vol. 3, p. 145. Per questo Panikkar afferma che «un cristiano non “comprenderà” mai l’induismo se non si convertirà all’induismo. Un indù non “capirà” mai il cristianesimo se non diventerà cristiano». ID., Il Cristo sconosciuto dell’induismo, Vita e Pensiero, Milano 1976, p. 47.
[65] A. ROSSI, Pluralismo e armonia, p. 5.
[66] R. PANIKKAR, Trinità ed esperienza religiosa dell’uomo, Cittadella, Assisi (PG) 1989, p. 35.
[67] ID., La nuova innocenza, vol. 3, pp. 37-48.
[68] ID., La nuova innocenza, vol. 3, pp. 182-185. Cfr. R. PANIKKAR, “Religione o cultura. Come l’Occidente è caduto nella trappola del dualismo”, in «Il Margine», n° 6, 1995: «Ciascuno di noi, fortunatamente, è una strada unica e differente. [...] Per la tua unica esistenza c’è un cammino che è esclusivamente il tuo. [...] Quindi, c’è un’unica strada? Sì: c’è un’unica strada, ma unica per ciascuno. Anche qui Tommaso d’Aquino ci serve, quando dice che la coscienza personale è l’ultimo criterio per l’autenticità delle decisioni di una persona. Tante strade quanti uomini. Chi sono io per giudicare la strada del prossimo, quando sta scritto che io non devo giudicare il mio prossimo?».
[69] ID., La pienezza dell’uomo, cit., p. 48. Panikkar, al contrario, sostiene che «non è necessario appartenere al magistero ufficiale della Chiesa per essere un vero teologo. Dobbiamo una volta per tutte vincere quel falso e farisaico rispetto che la nostra epoca, in questo ancora postcartesiana, riserva ai teologi, intesi come i portatori ufficiali della dottrina di una confessione religiosa. La teologia non è una materia di confessione o di scuola, ma di fede – e in ogni caso di Chiesa – ed ogni cristiano deve essere sufficientemente sincero per non lasciare la propria fede al margine del suo pensiero o per utilizzarla solo come correttivo estrinseco, quasi che la sua ragione stessa non sia illuminata da questa forma superiore di conoscenza che ci dà la vera sapienza. [...] Non si dimentichi che la teologia, secondo lo stesso san Tommaso, non è che una espansione normale della vita della fede. “Fides quaerens intellectum”. Occorre riprendere quella pratica cristiana, mai perduta del tutto, di far funzionare integralmente – cioè teologicamente – la nostra intelligenza»: Dimensioni mariane della vita, cit., pp. 10-11.
[70] ID., La nuova innocenza, vol. 1, pp. 10-11.
[71] La questione è trattata diffusamente in ID., La nuova innocenza, vol. 2, pp. 111-127. Da questo testo sono tratte, se non diversamente specificato, le prossime citazioni di questo paragrafo.
[72] «Volevo soprattutto dire che la verità che possiamo onestamente rivendicare come universalmente valida, la verità che ci fa veramente liberi, è una verità esistenziale, non una pura dottrina». ID., Il Cristo sconosciuto dell’induismo, cit., p. 23.
[73] Panikkar non è l’unico ad essersela presa con una simile idea di ortodossia. Così T. MERTON, Mistici e maestri zen, Garzanti, 1969-1991, p. 254: «Col suo carattere formale, rigido e dottrinario, il buddismo tradizionale è sterile, roba da musei, inadatto al mondo moderno, non perché gli manchi il contatto con la realtà viva, ma perché gli manca il contatto con la stessa esperienza umana. Ancora una volta ci troviamo sul terreno esistenzialista, trascinati in una critica appassionata di quell’alienazione che sostituisce idee e forme alle realtà sperimentate. Questa sclerosi è naturalmente comune a tutte le ortodossie arbitrariamente e puramente autoritarie, nella religione, nella politica, nella cultura, nell’educazione e nella scienza».
[74] ID., Saggezza stile di vita, p. 14.
[75] L. MAZZOCCHI E A. TALLARICO, Il vangelo e lo zen. Dialogo come cammino religioso, Dehoniane, Bologna 1994, pp. 94-95.
[76] R. PANIKKAR, La nuova innocenza, vol. 3, pp. 22-23.
[77] R. PANIKKAR, La nuova innocenza, vol. 3, p. 22.
[78] R. PANIKKAR, La nuova innocenza, vol. 3, p. 26.
[79] Cfr. ID., “L’arte dell’impossibile”, in R. PANIKKAR ED AL., Reinventare la politica, l’Altrapagina, Città di Castello (PG) 1995, p. 143.
[80] ID., La nuova innocenza, vol. 3, p. 21.
[81] ID., La nuova innocenza, vol. 1, pp. 33-35.
[82] ID., La nuova innocenza, vol. 2, pp. 17-18.
[83] ID., La nuova innocenza, vol. 1, pp. 37-38.
[84] ID., La nuova innocenza, vol. 2, p. 18.
[85] ID., La nuova innocenza, vol. 1, p. 29.
[86] ID., La nuova innocenza, vol. 1, p. 34.
[87] C’è stata un’evoluzione nel pensiero di Panikkar su questo argomento. Nel 1976 egli scriveva: «Oggi sta sorgendo un terzo periodo della coscienza umana: la conquista di una seconda innocenza, la sintesi di un’esperienza integrale. [...] Non parlo di riguadagnare l’innocenza che abbiamo dovuto perdere per diventare quello che siamo, ma di conquistarne una seconda»: “La visione cosmoteandrica: il senso religioso emergente del terzo millennio”, in R. CAPORALE (A CURA DI), Vecchi e nuovi Dei, Valentino, Torino 1976, pp. 521-534. Nel testo R. PANIKKAR, La realtà cosmoteandrica, Jaca Book, Milano, del 2004, riprende questo brano e parla non più di “seconda” innocenza, bensì di “nuova” innocenza. Altrove, pur non parlando esplicitamente di un cambiamento di rotta, Panikkar ha spiegato perché il termine corretto da utilizzare sia “nuova” e non già “seconda”: «La nuova innocenza non è una seconda innocenza, non è una ripetizione della prima, non è una sua seconda edizione, nemmeno riveduta e corretta. È nuova, così nuova che non si ricorda d’essere seconda perché non lo è; non è l’innocenza perduta recuperata, perché quella perduta è proprio perduta»: ID., La nuova innocenza, vol. 1, p. 34. Cfr. anche ID., La nuova innocenza, vol. 3, p. 17, dove Panikkar sottolinea che «non ci può essere una seconda innocenza».
[88] ID., La nuova innocenza, vol. 2, pp. 19-21.
[89] ID., La nuova innocenza, vol. 3, p. 15.
[90] «Facciamo uso della parola tempiternità per esprimere l'intuizione dell'esperienza della realtà come temporale e come eterna, non separata diacronicamente o ontologicamente. Tempo ed eternità sono le due facce della stessa medaglia»: ID., La realtà cosmoteandrica, p. 153.
[91] Cfr. A. Gnoli, “Intervista a Raimon Panikkar”.
[92] Su questo punto, cfr. il saggio di P. ARZANI, “A proposito dell’etica cristiana”, in «Humana.mente» online, ISSN 1972-1293, n° 7, ottobre 2008, pp. 173-180.
[93] Tema che BELLET ha affrontato esaurientemente in Vocazione e libertà, Cittadella, Assisi (PG) 2008.
[94] È la bibliografia che mi sarebbe piaciuto scrivere al posto della mia Nota bibliografica, e una delle più affascinanti lezioni di filosofia che abbia mai ascoltato. Bellet l’ha inserita nel suo Théologie express, Desclée De Brouwer, Paris 1980, p. 11.

("Filosofia.it", settembre 2009)

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